venerdì 20 maggio 2011

GEREMIA

Invocare
Spirito di Dio, che agli inizi della creazione ti libravi sugli abissi dell'universo e trasformavi in sorriso di bellezza il grande sbadiglio delle cose, scendi ancora sulla terra e donale il brivido dei cominciamenti. Questo mondo che invecchia, sfioralo con l'ala della tua gloria. Restituiscici al gaudio dei primordi. Riversati senza misura su tutte le nostre afflizioni. Librati ancora sul nostro vecchio mondo in pericolo. E il deserto, finalmente, ridiventerà giardino e nel giardino fiorirà l'albero della giustizia e frutto della giustizia sarà la pace. Spirito di Dio, che presso le rive del Giordano sei sceso in pienezza sul capo di Gesù e l'hai proclamato Messia, dilaga su questa porzione del tuo Corpo mistico raccolta davanti a te. Adornala di una veste di grazia. Consacrala con l'unzione e invitala a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri e a promulgare l'anno di misericordia del Signore. Liberaci dalla paura di non farcela più. Dai nostri occhi partano inviti a sovrumane trasparenze. Dal nostro cuore si sprigioni audacia mista a tenerezza. Dalle nostre mani grondi la benedizione del Padre su tutto ciò che accarezziamo. Fa' risplendere di gioia i nostri corpi. Rivestici di abiti nuziali. E cingici con cinture di luce. Perché, per noi e per tutti, lo Sposo non tarderà (T. Bello).


Leggere (Ger 1,4-19; 15,16;16,1-9;20,7)
1,4 Mi fu rivolta la parola del Signore: 5 “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni”. 6 Risposi: “Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane”. 7 Ma il Signore mi disse: “Non dire: Sono giovane, ma và da coloro a cui ti manderò e annunzia ciò che io ti ordinerò. 8 Non temerli, perché io sono con te per proteggerti”. Oracolo del Signore. 9 Il Signore stese la mano, mi toccò la bocca e il Signore mi disse: “Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca. 10 Ecco, oggi ti costituisco sopra i popoli e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare”. 11 Mi fu rivolta questa parola del Signore: “Che cosa vedi, Geremia? ”. Risposi: “Vedo un ramo di mandorlo”. 12 Il Signore soggiunse: “Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla”. 13 Quindi mi fu rivolta di nuovo questa parola del Signore: “Che cosa vedi? ”. Risposi: “Vedo una caldaia sul fuoco inclinata verso settentrione”. 14 Il Signore mi disse: “Dal settentrione si rovescerà la sventura su tutti gli abitanti del paese. 15 Poiché, ecco, io sto per chiamare tutti i regni del settentrione. Oracolo del Signore. Essi verranno e ognuno porrà il trono davanti alle porte di Gerusalemme, contro tutte le sue mura e contro tutte le città di Giuda. 16 Allora pronunzierò i miei giudizi contro di loro, per tutto il male che hanno commesso abbandonandomi, per sacrificare ad altri dèi e prostrarsi davanti al lavoro delle proprie mani. 17 Tu, poi, cingiti i fianchi, alzati e dì loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti alla loro vista, altrimenti ti farò temere davanti a loro. 18 Ed ecco oggi io faccio di te come una fortezza, come un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. 19 Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti”. Oracolo del Signore.
15,16 Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore, perché io portavo il tuo nome, Signore, Dio degli eserciti.
16,1 Mi fu rivolta questa parola del Signore: 2 “Non prendere moglie, non aver figli né figlie in questo luogo, 3 perché dice il Signore riguardo ai figli e alle figlie che nascono in questo luogo e riguardo alle madri che li partoriscono e ai padri che li generano in questo paese: 4 Moriranno di malattie strazianti, non saranno rimpianti né sepolti, ma saranno come letame sulla terra. Periranno di spada e di fame; i loro cadaveri saranno pasto degli uccelli dell’aria e delle bestie della terra”. 5 Poiché così dice il Signore: “Non entrare in una casa dove si fa un banchetto funebre, non piangere con loro né commiserarli, perché io ho ritirato da questo popolo la mia pace - dice il Signore - la mia benevolenza e la mia compassione. 6 Moriranno in questo paese grandi e piccoli; non saranno sepolti né si farà lamento per essi; nessuno si farà incisioni né si taglierà i capelli. 7 Non si spezzerà il pane all’afflitto per consolarlo del morto e non gli si darà da bere il calice della consolazione per suo padre e per sua madre. 8 Non entrare nemmeno in una casa dove si banchetta per sederti a mangiare e a bere con loro, 9 poiché così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: Ecco, sotto i vostri occhi e nei vostri giorni farò cessare da questo luogo le voci di gioia e di allegria, la voce dello sposo e della sposa.
20,7 Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno; ognuno si fa beffe di me.



Questo mese presentiamo questa bella pagina dove viene presentata la vita del profeta Geremia. Abbiamo preso il testo biblico da più parti in modo da vedere meglio, con un colpo d’occhio la sua vocazione e missione.
La cosa che notiamo, che è sempre stata di generazione in generazione sulla bocca di tutti, è “Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane” (v. 6). Anche Geremia era giovane (circa 20 anni) quando la Parola di Dio risuonò sulla sua vita per essere inviato al popolo.
Nella prima parte (1,4-16) viene inquadrata la Vocazione di questo giovane. Cosa notiamo? Anzitutto c’è un’epoca (descritta nei primi tre versetti), la nostra epoca dove collocare il messaggio di vita ed è in questa epoca (a differenza della vocazione di Mosé, di Gedeone, di Isaia) che la Parola agisce, irrompe nella vita serena e tranquilla di questo giovane (v. 4). In Geremia non abbiamo una teofania, ma l’azione di Dio (factum dice il testo latino), mediante la Sua Parola, nella strada del giovane. In francese strada fa “route”. Una parola che viene dal latino “rumpere viam” e letteralmente vuol dire “aprire un passaggio, praticare un sentiero”.
La Parola provoca una rottura dentro la storia della vita, la nostra storia, quella di ogni giorno; una volta assimilata, ruminata ci porta ad essere persone che costruiscono la strada di Dio, che tracciano il sentiero.
Perché tutto questo? Perché Dio “conosce” (v. 5) il suo popolo, cioè lo ama: «Ascoltate questa parola che il Signore ha detto riguardo a voi, Israeliti, e riguardo a tutta la stirpe che ho fatto uscire dall’Egitto: “Soltanto voi ho eletto tra tutte le stirpi della terra…”» (Am 3,1-2a) e lo vuole “formare”. Un verbo che non indica tanto una crescita pedagogica, ma che richiama alla creazione (Cfr. Gen 2,19; 2,7-8; Ger 18,2-4; Sal 139,13-16); in questo verbo viene indicato l’uomo plasmato da Dio. Cosa significa?
La vocazione è una realtà che è dentro la persona umana, nel suo essere: è la parte della sua costituzione. L’uomo in quanto tale, è uno che è stato chiamato dalla Parola del Signore (Cfr. Gen 1: “Dio disse…”).
Un altro verbo che ci aiuta è “consacrare”, un verbo che significa “separare”: Dio è santo e proprio perché è santo, consacra, cioè “separa” per una missione. Dio “separa” da tutto ciò che può costituire uno ostacolo alla missione profetica. Ed è in questo contesto che Dio rivolge questa parola: “ti ho stabilito profeta delle nazioni”.
La missione a cui viene chiamato Geremia, ciascuno di noi è un dono di Dio (“ti ho STABILITO” oppure “ti ho FATTO”). È Dio che ci ha FATTO profeta delle nazioni.
Alla luce della Parola di Dio, Geremia prende coscienza che c’è un progetto di Dio su di lui, un progetto che è inscritto sul suo stesso essere uomo… Bisogna andare lontano per scoprire quello che Dio vuole da ciascuno di noi: è sufficiente, alla luce della Parola di Dio, si guardi dentro come è fatto per scoprire il progetto di Dio su di lui. È la gratuità di Dio. Egli ti ha amato sin dall’inizio, ti ha dato la vita, tu sei il frutto delle sue mani, tu sei Suo dono.
La gratuità di Dio è inscritta nel tuo stesso essere. Ciò che tu hai non è tuo, è dono di Dio, la tua intelligenza come tutte le tue qualità che caratterizzano la tua personalità è dono Suo. Tu, non è che non vali niente. Tu sei un valore davanti a Dio, perché sei dono Suo. E poiché il nostro Dio è un Dio generoso che dona “a perdere”, ecco che questo dono – che tu sei – lo dona agli altri, alle “Nazioni”. È sempre Lui che questo dono se lo conserva per sé ma per donarlo agli altri (Cfr. Ef 1,4-14).
Certo, come in ogni storia vocazionale, ci vuole tempo e pratica per riconoscere che siamo un Dono di Dio, per cui poniamo ostacoli (v.6), facciamo le nostre obiezioni davanti a Dio. Qui entrano in gioco le nostre pause di perdere l’autonomia.
L’obiezione di fondo nasconde una paura molto seria: la paura di non essere ascoltato, capito, amato dagli altri che sono più grandi di lui, esperti…
Ma il Signore vuole proprio questo, per questo chiama Geremia (vv. 7-8). Deve essere chiaro a tutti che la missione profetica viene da Dio, è dono suo, è che la parola del profeta è frutto della sapienza di Dio e della sua presenza come un fedele compagno di viaggio. Egli è colui che ripete sempre: “Non temere… io sono con te”.
«La parola che Dio mi metterà in bocca, quella dirò» (Nm 22,38; Cfr. Dt 18,15.18). Dio fa a Geremia, a ciascuno di noi il dono della sua Parola. Non si possiede altro che una Parola, quella di Dio. E attraverso il profeta Dio veglierà sul suo popolo: «Ti ho posto come sentinella alla casa di Israele» (Ez 3,16. Cfr. Os 9,8). Dio non si addormenta mai (Sal 120,4), non cadrà mai nell’indifferenza e apatia. Attraverso il profeta-sentinella, Dio distrugge ciò che non è conforme al suo progetto e costruire ciò che è conforme ad esso.
Concludiamo la lectio con la missione del chiamato alla vita profetica. I vv. 17-19 ci ricordano il movimento da fare: “cingiti i fianchi” – “alzati”, è il movimento della Parola. Il profeta è una persona in cammino, è il mendicante di Dio, il suo viandante (v. 17), è sempre desto. In questo cammino egli deve armarsi di coraggio, perché la Parola che annunzierà susciterà conflitti poiché è una parola esigente, che va alla radice.
In questo cammino risuonerà sempre: “Io sono con te” e nei periodi di crisi vocazionale, più volte farà memoria della prima chiamata (Ger 15,16). Tutto ciò lo ricorda come un innamoramento (Ger 20,7). Dio l’ha affascinato totalmente che Geremia non si sposerà. Il suo celibato è segno dell’amore di Dio per il suo popolo (Os 2,16) e della risposta sponsale che il popolo deve dare a Dio.

Interrogarsi
1. Il mio rapporto con Dio è vissuto all’insegna di timidezza e paura oppure di franchezza e schiettezza?
2. So fidarmi di Dio anche quando non capisco le sue vie, i suoi progetti, la sua volontà?
3. Dinanzi alle richieste di Dio guardo solo alle mie capacità o alle mie debolezze o confido nella forza che mi viene dal Signore?
4. Ho il coraggio di testimoniare la mia fede anche a costo di essere “emarginato”?
5. Lascio che la Parola di Dio faccia irruzione nella mia vita e mi guidi per i sentieri di Dio?

Pregare
Signore Gesù, ti chiedo scusa se spesso guardo a me stesso e alle mie debolezze e, impaurito, mi rifiuto di seguirti e assumermi le responsabilità del Vangelo. Ti ringrazio perché a volte usi violenza con me e mi porti lì dove non pensavo e non volevo.
Ti sono grato perché, nonostante le mie fragilità, Tu ti fidi di me e mi affidi la missione di essere tuo gioioso testimone nel mondo.

Agire
Ogni giorno sia un abbandono fiducioso alla volontà di Dio. Ripeti: “Non capisco le tue vie, Signore, ma tu sei l’unico che conosce la mia strada”.

NOEMI

invocare
O Gesù, Salvatore e Maestro delle umani generazioni, degnati di effondere nei redenti la tua luce, la tua verità, il tuo Spirito affinché tutti ci santifichi, e fiorisca sulla terra il tuo santo regno… e tu, o Signore, tieni nel cuore le anime alimentandole della grazia e del tuo stesso Spirito, come la vite alimenta del proprio succo i suoi tralci. Amen (beata Elena Guerra).

lettura (Rt 4,13-17)
4,13 Booz prese Rut, che divenne sua moglie. Egli si unì a lei e il Signore le accordò di concepire: essa partorì un figlio. 14 E le donne dicevano a Noemi: “Benedetto il Signore, il quale oggi non ti ha fatto mancare un riscattatore perché il nome del defunto si perpetuasse in Israele! 15 Egli sarà il tuo consolatore e il sostegno della tua vecchiaia; perché lo ha partorito tua nuora che ti ama e che vale per te più di sette figli”. 16 Noemi prese il bambino e se lo pose in grembo e gli fu nutrice. 17 E le vicine dissero: “È nato un figlio a Noemi!”. Essa lo chiamò Obed: egli fu il padre di Iesse, padre di Davide.


Meditare Noemi forse il nome l’abbiamo già sentito o letto perché suocera di Rut la moabita. Il nostro brano biblico racconta la vicenda finale, a lieto fine, della sua storia. Infatti, Noemi nella sua vita è una donna che ha molto sofferto. Emigrò col marito e i due figli da Betlemme nella terra di Moab. Qui dopo dieci anni il marito morì e quando i figli sposarono donne di Moab, morirono anche loro.
Allora Noemi decide di ritornare al suo paese e Rut rimane con lei anche se Noemi, sebbene la sua nuora fosse per lei un sostegno e un conforto, in cuor suo è amareggiata perché desiderava che ritornasse nella sua terra per sposarsi.
Noemi ritorna a Betlemme e le donne del paese l’accolgono con gioia pensando al significato del suo nome “la mia dolcezza” anche se Ella desidera essere chiamata Mara, “l’amara” (Cfr. Rt 1,19-21).
Il Signore, come il solito, è Colui che ci fa stare bene che trova sempre il modo perché i suoi figli non soffrano. Egli è Colui che cambia la tristezza di Noemi in gioia (Cfr. Ger 31,13) e il nome di Noemi si rivela come una vera profezia, così come dice il detto latino: nomen est homen.
Quale valore insegna questa grande donna, se non quello di saper trovare la gioia nella sofferenza! Le prime parole del v. 13, indicano l’unione sponsale di un uomo e una donna. Questi riempiono di gioia quell’amarezza di cui, Noemi, si era impadronita per il resto dei suoi giorni, come del resto anche la parte finale del brano completa questa gioia.
La via della gioia non è sempre facile, forse perché vorremo arrivare subito alla gloria, alla realizzazione della nostra vita, ma per arrivarci, bisogna passare prima per la via dell’umiltà (Pr 15,33). Infatti, Cristo «Pur essendo di natura divina, (…) spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo (…) umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; (…) e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 6-11).
Questa via, anche se non facile, se accolta, permetterà certamente di giungere alla meta. L’umiltà è una via di purificazione che conduce alla maturità di Cristo (Ef 4,13). Perché soffrendo in Cristo, il cristiano accoglie quella situazione dolorosa «Per amore degli eletti, affinché essi pure raggiungano la salvezza» (2Tm 2,10), trovando «Gioia nelle sofferenze che sopporto per voi, e completo nella mia carne ciò che manca alle tribolazioni di Cristo per il suo corpo, che è la Chiesa» (Col 1,24).
Il brano biblico della nostra lectio ci richiama a vivere una maternità, non tanto fisica ma spirituale cercando di vivere quegli stessi sentimenti di maternità di Dio.
La vita di Noemi non è abbandonata nel sepolcro (Sal 16,10). Anzi, c’è un sepolcro da cui bisogna uscire (Cfr. Ez 37,12-13), per poter dar vita alla realtà. Basta pensare a Gesù, anche Lui è una madre. Nell'ora della sua morte da vita ad una nuova realtà: la Chiesa, quando dava il suo Spirito... "... e uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua" (Cfr. Gv 19,28-30; 34).
Il cuore di Gesù fu come una caverna vitale. È il mistero della femminilità di Dio che i mistici del medio evo non esitavano a chiamare Gesù una Madre. Anche Dio, l'Abbà di Gesù è il nostro Abbà, ma non è solamente Padre, è anche Madre.
Ognuno di noi può vivere questa dimensione. La Parola di Gesù lo conferma: «... chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, Sorella e Madre» (Mt 12,50).
Quindi, noi siamo "consanguinei" di Gesù: l'uno è dell'altro, in appartenenza reciproca d'amore. La nostra parentela con Dio si fonda sul fare la volontà del Padre, che si esprime nella Parola del Figlio. Uno diventa la parola che ascolta e che fa. È la stessa Verità che afferma Gesù nel Vangelo di Giovanni: “Colui che mi ama, sarà amato dal Padre mio, e io pure l'amerò; noi verremo a lui e porremo in lui la nostra dimora” (Gv 14,23). Questo significa che l'anima non solo è collaboratrice di Dio nel generare figli per il regno, ma vivendo spiritualmente la dimensione materna, è dimora della Trinità.
Per vivere questa dimensione, Noemi proietta molto tempo prima a ciascuno di noi il mistero trinitario del Dio-per-noi; del Dio-in-noi; del Dio-con-noi. È un mistero che ci riguarda, un mistero da balbettare nella vita di tutti i giorni cogliendone la sua dimensione esistenziale. Diceva il filosofo austriaco L. Wittgenstein nella sua opera “Pensieri diversi”: «Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e sarà dell’anima umana, ma una descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo», cioè quel mio rapporto con Gesù, il “mio” Signore che amo come lui mi ama (Cfr. Gal 2,20). Ed è in questo evento reale che il Dio-per-noi, il Dio-in-noi sono realtà non confinate nell’astratto, ma ci toccano da vicino, interessano la nostra ferialità. Direbbe san Tommaso d’Aquino: «È la salvezza che germoglia nel cuore dell’uomo strappandolo dal male e dalla disperazione».
Noemi nella sua sofferenza ha vissuto di questo mistero, perché legato alle sue vicende. Un mistero che l’ha trasformata davanti alla sua gente, un mistero che l'ha fatta rivivere insieme alla sua gente. Il mistero è una realtà dinamica, come la stessa Parola di Dio, perché Dio agisce a favore dell’umanità.
In questo mistero Dio è Padre e Madre per ciascuno dei suoi figli, i quali sono chiamati a loro volta, con il loro "sì" al Padre, ad esserlo per gli altri. Infatti, Dio nasce in ogni uomo che è aperto, che ascolta e accetta la Parola di Dio come Noemi.
La nostra dignità, la nostra vocazione e missione – insegna Noemi - è inimmaginabile. La nostra grande vocazione è diventare Madre del Signore: dare corpo al Figlio di Dio, portandolo nel cuore e nel corpo nostro per mezzo del divino amore e della pura e retta coscienza, fino alla statura piena (Cfr. Ef 4,13): generandolo attraverso le opere in modo che «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16).
Quali sono le opere che l’evangelista e Noemi ci vogliono indicare, perché possiamo viverle nella vita di tutti i giorni? Sono le opere dell’amore. Il profeta Isaia (58,7-10) specifica questa esigenza della vita cristiana facendone un elenco. Tale elenco è racchiuso in un’espressione che il profeta porta per ciascuno di noi «Non distogliere gli occhi dalla tua gente» (Is 58,7) (ovvero “da chi è tua carne”). C’è una fatica umana per capire questo, ma prossimo è colui che non ti è estraneo ma è “carne tua”; non lo puoi opprimere né disprezzare né dimenticare.
La vicenda finale di Noemi è la nostra stessa carne che urla di fronte alle sofferenze di chi è una parte di noi, non ci permette l’indifferenza. Avere il cuore di Dio Padre e Madre è sentirsi parte di questa sofferenza. E se sarà così, «la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto» (Is 57,8).
In Noemi è rispuntata quella luce, simbolo evidente della vita. Noemi ha ricevuto quella luce necessaria da parte di Dio perché a sua volta sia ella stessa sorgente di vita per chi è debole.
La sua vocazione è essere luce, come un piccolo riflesso della luce e dell’amore di Dio per gli altri.
Finalmente Noemi ha capito che la sua vita era una continua donazione e il Signore il suo continuo compenso (Cfr. Ger 31,16), e tu?

interrogarsi
1. Spesso nella vita mi ritrovo davanti a una scelta. Mi lascio guidare dall’azione dello Spirito di Dio, perché sia sempre Lui a sostenermi e possa, con il Suo aiuto, scegliere sempre bene e servire meglio la società?
2. Cerco di vivere la paternità e maternità di Dio, dando corpo al Figlio di Dio portandolo nel cuore e nel corpo per mezzo del divino amore e della pura e retta coscienza, generandolo attraverso le opere?
3. Di fronte alle sofferenze dell’umanità, come rispondo? Quali opere di bene vivo e testimonio ogni giorno?
4. Sono pronto/pronta ad essere una continua donazione?

Pregare (Dal Salmo 22 [21])
Lodate il Signore, voi che lo temete, gli dia gloria la stirpe di Giacobbe,
lo tema tutta la stirpe di Israele;
perché egli non ha disprezzato né sdegnato l’afflizione del misero,
non gli ha nascosto il suo volto, ma, al suo grido d’aiuto, lo ha esaudito.

Sei tu la mia lode nella grande assemblea, scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli.
I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano:
“Viva il loro cuore per sempre”.

Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra,
si prostreranno davanti a lui tutte le famiglie dei popoli.
Poiché il regno è del Signore, egli domina su tutte le nazioni.
A lui solo si prostreranno quanti dormono sotto terra,
davanti a lui si curveranno quanti discendono nella polvere.

E io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza.
Si parlerà del Signore alla generazione che viene;
annunzieranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno:
“Ecco l’opera del Signore! ”.

agire
Prova ogni giorno ad amministrare con tanta sapienza e intelligenza a scrutare i misteri dell’agire di Dio contenuti attraverso la Parola di Dio e la vita.

EZECHIELE

invocare
Vieni, Spirito Santo! Vincolo dell’amore eterno vieni Tu ad unirci nella pace: riconciliaci con Dio, rinnovaci nell’intimo, fa’ di noi verso tutti i testimoni e gli operatori dell’unità che viene dall’alto. Tu che sei l’estasi del Dio vivente, dono perfetto dell’Amante e dell’Amato nel loro amore creatore e redentore, vieni Tu ad aprirci alle sorprese dell’Eterno, anticipando in noi, poveri e pellegrini, la gloria della patria, intravista ma non posseduta.




lectio (Ez 1,1-3.2,1-3,4.10.14-16)
1, 1 Il cinque del quarto mese dell’anno trentesimo, mentre mi trovavo fra i deportati sulle rive del canale Chebàr, i cieli si aprirono ed ebbi visioni divine. 2 Il cinque del mese - era l’anno quinto della deportazione del re Ioiachìn - 3 la parola del Signore fu rivolta al sacerdote Ezechiele figlio di Buzì, nel paese dei Caldei, lungo il canale Chebàr. Qui fu sopra di lui la mano del Signore.
2, 1 Mi disse: “Figlio dell’uomo, alzati, ti voglio parlare”. 2 Ciò detto, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. 3 Mi disse: “Figlio dell’uomo, io ti mando agli Israeliti, a un popolo di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri hanno peccato contro di me fino ad oggi. 4 Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: Dice il Signore Dio. 5 Ascoltino o non ascoltino - perché sono una genìa di ribelli - sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro. 6 Ma tu, figlio dell’uomo non li temere, non aver paura delle loro parole; saranno per te come cardi e spine e ti troverai in mezzo a scorpioni; ma tu non temere le loro parole, non t’impressionino le loro facce, sono una genìa di ribelli. 7 Tu riferirai loro le mie parole, ascoltino o no, perché sono una genìa di ribelli. 8 E tu, figlio dell’uomo, ascolta ciò che ti dico e non esser ribelle come questa genìa di ribelli; apri la bocca e mangia ciò che io ti do”. 9 Io guardai ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo. Lo spiegò davanti a me; era scritto all’interno e all’esterno e vi erano scritti lamenti, pianti e guai.
3, 1 Mi disse: “Figlio dell’uomo, mangia ciò che hai davanti, mangia questo rotolo, poi và e parla alla casa d’Israele”. 2 Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3 dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutrisci il ventre e riempi le viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai e fu per la mia bocca dolce come il miele. 4 Poi egli mi disse: “Figlio dell’uomo, và, recati dagli Israeliti e riferisci loro le mie parole. 10 Mi disse ancora: “Figlio dell’uomo, tutte le parole che ti dico accoglile nel cuore e ascoltale con gli orecchi. 14 Uno spirito dunque mi sollevò e mi portò via; io ritornai triste e con l’animo eccitato, mentre la mano del Signore pesava su di me. 15 Giunsi dai deportati di Tel- Avìv, che abitano lungo il canale Chebàr, dove hanno preso dimora, e rimasi in mezzo a loro sette giorni come stordito. 16 Al termine di questi sette giorni mi fu rivolta questa parola del Signore: “Figlio dell’uomo, ti ho posto per sentinella alla casa d’Israele.

Di famiglia sacerdotale (Cfr. 1,2-3), sacerdote egli stesso fin da giovane, Ezechiele è il terzo tra i profeti chiamati “Maggiori”, dopo Isaia e Geremia. Di quest’ultimo è contemporaneo.
Ezechiele, il cui nome in ebraico significa: “Dio conceda forza”, lo troviamo tra i deportati in Babilonia nel primo assedio di Gerusalemme, nel 597 a.C., ad opera del re Nabucodonosor.
La sua chiamata inaugurale avvenne con una grandiosa visione nel 593. Mentre stava in preghiera, scorge di trovarsi di fronte ad una teofania (Ez 1,21) e circondato dal suo splendore (kabôd).
Nei Salmi JHWH è descritto come colui che «è assiso sui cherubini» (Sal 80,2; 99,1), che vola sulle ali del vento (Sal 18,11), preceduto da folgori, nembi di tempesta (Sal 29,10; 18,12s). Questa manifestazione divina avviene in un momento preciso della storia del popolo e soprattutto nella vita di Ezechiele: «lI cinque del mese dell’anno trentesimo» (1,1) che sta ad indicare, con tutta probabilità, l’età del profeta.
La visione inaugurale, datata al «cinque del mese - era l’anno quinto della deportazione del re Ioiachìn» (1,2), indica l’inizio dell’attività profetica. E in quell’anno il Signore si è rivelato a Ezechiele (Cfr. Ger 1,1; Os 1,1; Gl 1,1; Gn 1,1; Sof 1,1; Ag 1,1; Zac 1,1), per fare di lui un profeta e far risuonare la Parola tra gli esiliati (1,3).
Anche nella nostra vita c’è un tempo particolare in cui Dio vuole comunicarci qualcosa, far risuonare nella vita ordinaria la sua Parola.
L’espressione «I cieli si aprirono» (1,2) è tipica delle teofanie. È il segno che Dio viene verso il suo popolo per prestare ad esso il suo soccorso e liberarlo dai nemici (Cfr. Is 63,19-64,1). Questa liberazione la vediamo in maniera completa e definitiva in Gesù di Nazareth.
La vocazione di Ezechiele, come di qualsiasi altra persona designata al servizio divino, avviene in modo graduale fin quando «La mano del Signore fu sopra di lui» (Ez 1,3. Cfr. Nm 24,2; Gdc 3,10; 1Sam 16,13; Is 42,1; Mt 12,18).
Cosa significa questo per un cammino spirituale? Anzitutto è da tenere presente il luogo dove avviene la chiamata per Ezechiele «Nel paese dei Caldei…» (1,3), cioè in Terra straniera. Questo sta ad indicare che il Dio di Israele non è un Dio confinato nei limiti di una tribù, di una nazione o di un altare. Egli è Colui che estende la sua Sovranità ovunque, capace di ricondurre a Lui ogni persona ovunque si trovi. Ed è ovunque ci si trova che bisogna “mangiare ciò che abbiamo davanti, il rotolo, per partire e parlare a tutti” (Cfr. 3,1). È un cammino interiore, fatto d’ascolto, meditazione, ruminazione e la preghiera della Parola di Dio avviene, come per il pio ebreo, come una “mormorazione” della Parola fino ad un’assimilazione completa della Scrittura. Infatti, «La radice della fede biblica sta nell’ascolto, attività vitale, ma anche esigente. Perché ascoltare significa lasciarsi trasformare a poco a poco, fino a essere condotti su strade spesso diverse da quelle che avremmo potuto immaginare chiudendoci in noi stessi… Da qui la tentazione di non aprirgli [a Gesù] la porta, di lasciarlo fuori della nostra esistenza reale. La storia del peccato, infatti, è sempre radicata nella storia del non ascolto…» (CEI, Comunicare il vangelo…, 29 giugno 2001, 13).
Anche il profeta Geremia ricorda questa esperienza fin dai primi tempi della sua vocazione profetica: «Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore» (Ger 15,16).
In questa situazione la Parola divina si presenta sempre salutare e «dà a chi l’osserva la vita» (Ez 20,21) e anche se disattesa, gioverà a far capire che Dio, attraverso i suoi messaggeri, sta in mezzo al suo popolo per illuminarlo e dirigerlo in attesa di “piantare la tenda” per sempre (Cfr. Gv 1,14).
Per fare questo cammino, la lectio ci suggerisce che bisogna “aprire la bocca e mangiare”. È un movimento biblico, ma che ha stretto rapporto con questo imperativo: «ascolta ciò che ti dico» (2,8), un modo per manifestare pubblicamente l’obbedienza alla parola di JHWH.
Il neo-eletto quindi non si scoraggi dell’incomprensione che incontrerà. Anzi ogni giorno «Getta nel Signore il tuo affanno ed egli ti darà sostegno, mai permetterà che il giusto vacilli» (Sal 54,23). Sono parole che incoraggiano ogni cammino vocazionale, ogni esistenza. È un sentirsi dentro e fuori «non temere» (Cfr. 2,6; 3,9). È un trovare in Lui un eloquente esempio di fedeltà vocazionale, una riscoperta del battesimo in parallelo al mandato riscoprendo «Le cose di lassù» (Col 3,1), lasciandosi guidare dallo Spirito “senza preoccuparsi per quello che bisogna dire” (Mt 10,19; Mc 13,11; Lc 21,14-15; Lc 12,11). Facendo così, sarà solidale con Colui che lo mandato: «Non vogliono ascoltar te, perché non vogliono ascoltar me» (Ez 3,7).
In queste parole vi è una ribellione del popolo (2,4-6) a cui il chiamato deve intervenire con tranquillità sicuro perché sarà invincibilmente assistito dalla potenza divina e fatto partecipe del suo piano di salvezza.
Cosa succede a livello vocazionale nella vita di questo grande profeta non è facile descriverlo, in quanto nei Testi vi sono ritocchi e dettagli aggiunti dai suoi discepoli. Egli stesso ripete più volte per noi queste parole: “qualcosa come…qualcosa che rassomiglia a…” (Cfr. Ez 8,2; 10,1.21), cioè immagini varie e tradizionali con cui cerca di esprimere qualcosa della sua esperienza di Dio. Ma di Ezechiele, come per Isaia e Geremia, diciamo che egli è chiamato al servizio della Parola di Dio e ne è cosciente.
Ezechiele riconosce che, in un primo momento, nella sua bocca sentì il gusto di essere inviato – anche Geremia avvertì la stessa sensazione – di essere il portavoce di JHWH, il suo ministro.
L’esperienza è graduale, è il primo zuccherino che Dio passa per preparare coloro dai quali esigerà molto. Dirà Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
La Parola di Dio non solo fa alzare Ezechiele (2,1), ma lo rende amico del popolo: capace di ascoltare, di agire e di trasmettere - al popolo disperso in Babilonia - ciò che ascolta.
Questa stessa esperienza insegna a fare proprio il contenuto di quanto ascoltiamo, la Parola di JHWH, per poi essere mandati alla “casa di Israele”, cioè a tutto il popolo di Dio, per instaurare una relazione nuova tra sé e i deportati, per instaurare un patto d’amicizia, d’amore per sempre, per consacrarli nella verità (Gv 17,7).

interrogarsi
1. Ricordi qualche momento della tua vita in cui Dio si è manifestato per la prima volta?
2. Ti apri agli altri, affidandoti all’ascolto e alla comprensione degli altri?
3. Dopo l’ascolto della Parola, come comprometti la tua vita nell’ascolto?
4. Quale obbedienza pubblica manifesti alla Parola di JHWH?

preghiera
Padre, non sappiamo più ascoltare; Padre, nessuno più ascolta nessuno: nessuno sa fare silenzio! Abbiamo perso il senso della contemplazione, perciò siamo così soli e vuoti, così rumorosi e insensati; e inevitabilmente idolatri!
Anche quando l’angoscia ci assale donaci, o Padre, di non dubitare; o anche di dubitare, ma insieme di sempre più credere: di credere alla tua fedeltà e al tuo amore al di là di tutte le apparenze; e con il tuo Spirito, sempre presente nella nostra storia (David Maria Turoldo).

actio
Dedicati ogni giorno 15 minuti alla Parola di Dio affinché sia elemento decisivo, riferimento sostanzioso, quotidiano, originale, trasformatore.

SUSANNA

invocare
Siamo qui dinanzi a Te, o Spirito Santo: sentiamo il peso delle nostre debolezze, ma siamo tutti riuniti nel tuo nome; vieni a noi, assistici, scendi nei nostri cuori; insegnaci Tu ciò che dobbiamo fare, mostraci Tu il cammino da seguire, compi Tu stesso quanto da noi richiedi.
Sii Tu solo a suggerire e guidare le nostre decisioni, perché Tu solo, con Dio Padre e con il Figlio suo, hai un nome santo e glorioso: non permettere che sia lesa da noi la giustizia, Tu che ami l'ordine e la pace; non ci faccia sviare l'ignoranza, non ci renda parziale l'umana simpatia, non ci influenzino cariche o persone; tienici stretti a Te con il dono della tua grazia, perché siamo una sola cosa in Te e in nulla ci discostiamo dalla verità; fa che, riuniti nel tuo santo nome, sappiamo contemperare bontà e fermezza insieme, così da far tutto in armonia con Te, nell'attesa che per il fedele compimento del dovere ci siano dati in futuro i premi eterni. Amen.

lectio (Dan 13, 28-44)
13,28 Il giorno dopo, tutto il popolo si adunò nella casa di Ioakìm, suo marito e andarono là anche i due anziani pieni di perverse intenzioni per condannare a morte Susanna. 29 Rivolti al popolo dissero: “Si faccia venire Susanna figlia di Chelkìa, moglie di Ioakìm”. Mandarono a chiamarla 30 ed essa venne con i genitori, i figli e tutti i suoi parenti. 31 Susanna era assai delicata d’aspetto e molto bella di forme; 32 aveva il velo e quei perversi ordinarono che le fosse tolto per godere almeno così della sua bellezza. 33 Tutti i suoi familiari e amici piangevano. 34 I due anziani si alzarono in mezzo al popolo e posero le mani sulla sua testa. 35 Essa piangendo alzò gli occhi al cielo, con il cuore pieno di fiducia nel Signore. 36 Gli anziani dissero: “Mentre noi stavamo passeggiando soli nel giardino, è venuta con due ancelle, ha chiuse le porte del giardino e poi ha licenziato le ancelle. 37 Quindi è entrato da lei un giovane che era nascosto, e si è unito a lei. 38 Noi che eravamo in un angolo del giardino, vedendo una tale nefandezza, ci siamo precipitati su di loro e li abbiamo sorpresi insieme. 39 Non abbiamo potuto prendere il giovane perché, più forte di noi, ha aperto la porta ed è fuggito. 40 Abbiamo preso lei e le abbiamo domandato chi era quel giovane, ma lei non ce l’ha voluto dire. Di questo noi siamo testimoni”. 41 La moltitudine prestò loro fede poiché erano anziani e giudici del popolo e la condannò a morte. 42 Allora Susanna ad alta voce esclamò: “Dio eterno, che conosci i segreti, che conosci le cose prima che accadano, 43 tu lo sai che hanno deposto il falso contro di me! Io muoio innocente di quanto essi iniquamente hanno tramato contro di me”. 44 E il Signore ascoltò la sua voce.

Il brano messo alla nostra lectio è preso dal capitolo 13 del libro di Daniele e andrebbe letto dal v. 1 al v. 62.
Il Libro fu scritto in un periodo di crisi del popolo ebraico, al tempo in cui il popolo soffriva persecuzione ed oppressione. Esso racchiude fatti e visioni con parole di incoraggiamento per coloro che professano la sua stessa fede: il Signore abbatterà i tiranni e restaurerà la sovranità del suo popolo.
Come testo letterario, quello che abbiamo letto è un passo deuterocanonico e non fa parte del testo ebraico. Si presenta diverso nella versione dei Settanta e in quella di Teodozione (Di quest’ultimo non conosciamo quasi nulla. Secondo Epifanio nacque nel Ponto [ad Efeso secondo Ireneo] ed era cristiano della setta di Marcione. Conobbe poi il giudaismo e si convertì oppure passò alla setta degli ebioniti [secondo Girolamo]. Studiò la lingua ebraica e tradusse la Bibbia al tempo dell’imperatore Commodo cioè fra il 180 ed il 192. Criticamente, la versione di Teodozione è la più sicura ed è quella che anche liturgicamente leggiamo).
Anche se nel libro di Daniele abbiamo diversi autori o traduttori, quale messaggio vocazionale accogliamo, con l’aiuto di Susanna, nella nostra vita di tutti i giorni?
Di Susanna, il cui nome in ebraico significa “giglio”, si parla solo in questo capitolo del libro di Daniele, quasi a raccontare il passaggio di Dio nella storia di ognuno di noi.
Ebrea, «Di rara bellezza e timorata di Dio» (13,2), abitava in Babilonia col suo sposo Ioakìm, un uomo molto ricco (Cfr. 13,4).
In questa sua storia, vi entrano due anziani che si sono invaghiti di lei e volendole fare violenza, le tesero un tranello. Ma ella si rifiutò di cedere alle loro brame e così fu accusata di adulterio.
Quante volte nella nostra vita ci troviamo circondati, messi «Alle strette da ogni parte» (Cfr. 13,22-23) e sempre ci accompagna la domanda di un perché rivolta al Signore. Il Salmista ci ricorda e ci conforta: «Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano» (Sal 139,5).
In questa situazione drammatica, Gesù ci ricorda che «Il Regno dei cieli soffre violenza» (Mt 11,12), segno della presenza del Regno. È la prova della vita a cui siamo chiamati, è la prova della fiducia da depositare sempre più nel Signore, che ci chiama a “soffrire della stessa violenza di Dio” (Cfr. Ger 20,7) che è un continuo bisogno di conversione (Cfr. Mt 4,7) restando «saldi e irreprensibili» (Cfr. 1Ts 3,13) fino alla fine, anche attraverso la persecuzione (Cfr. Mt 10,22).
Anche Davide, messo alle strette risponde: «Sono in grande angoscia! Ebbene cadiamo nelle mani del Signore, perché la sua misericordia è grande, ma che io non cada nelle mani degli uomini!» (2Sam 24,14).
La lectio sottolinea una fedeltà da accogliere vivere (Cfr. Mt 11,14) per udirne il mistero nascosto (Cfr. Mt 11,25). Questa fedeltà è da vivere non solo per quanto nella vita abbiamo scelto o intrapreso, ma soprattutto nel Signore perché tutto passi attraverso Lui.
Susanna, poiché vuol rimanere fedele al Signore, sceglie di essere fedele al marito, anche a rischio della propria vita. Sceglie di mostrare «Zelo per la legge e dare la propria vita per l’alleanza dei nostri padri» (1Mac 2,50) che significa per noi entrare nel vangelo della grazia e della libertà, sapendo che Dio «restituirà di nuovo la speranza e la vita» (2Mac 7,23), sapendo che «È dal cielo che viene l’aiuto» (1Mac 3,19).
La Parola di Dio è sicurezza nella vita di Susanna in qualsiasi decisione che ella prende, poiché così dice Dio: «Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per rendere a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni» (Ger 17,10).
Questa donna diviene testimone credibile del fatto che «Il Signore è fedele per sempre, rende giustizia agli oppressi» (Sal 146,6-7), però ognuno di noi sa «Se manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2Tm 2,13).
Ma cosa significa essere fedele a Dio? Significa ricevere la vocazione di «servo». Significa non ragionare più con la propria testa, per cingersi le vesti del Cristo (Gal 3,27). Una veste che conduce alla morte innocente, secondo il pensiero del Salmista: «Si avventano insieme contro l'anima del giusto e condannano il sangue innocente» (Sal 94,21). Sant’Atanasio e Sant’Agostino accostano il verdetto ingiusto contro Susanna al processo intentato a Gesù Cristo e al giudizio di Pilato.
In questo cammino sofferente la volontà di Dio è la propria e ciò che non capisce, lo accoglie e medita dentro di sé (Cfr. Lc 2,19.51). È un continuo crescere nella fedeltà a Dio, un abbandonarsi totalmente a lui. Chi ne fa esperienza “Corre per la via dei comandamenti del Signore” (Sal 118,32), per testimoniare a tutti la stessa Legge di grazia e di libertà che si concretizza e si personalizza nel dono dello Spirito Santo che Cristo ha effuso «senza misura» (Gv 3,34).
Correre per i sentieri dei Comandamenti è il grido di una persona che conosce per esperienza la gioia della fedeltà perseverante alla legge di Dio. Essa dilata il cuore. Respira a pieni polmoni l’aria pura della vera libertà per i sentieri della vita: in salita, stretti, ardui, ma tracciati dalla Parola di Dio, perché è Dio che «insegna a Efraim a camminare» e che «solleva il bimbo per dargli da mangiare» (Os 11,3-4).
In quest’esperienza vi è fondamentalmente un fatto di sottomissione a Dio. Un restare soggetti che si concretizza nell’obbedienza alla Parola, ove “obbedire” significa “ascoltare la voce ponendosi sotto”. Il paradosso dell’esperienza cristiana, sta proprio in una sottomissione concepita come evento di liberazione e di fruttificazione. Come la terra produce il suo frutto non rifiutandosi all’acqua e al suolo, così la creatura che non si pone a lato (= disobbedienza) della Parola inviata da Dio viene sottratta alla molteplicità degli idoli e dischiusa ai frutti dello Spirito. In fondo, la sottomissione è una legge fondamentale della vita cristiana. È un salire il monte insieme al Cristo che porta la Croce e ridiscendere senza di lui perché irradiati dalla luce gloriosa del Crocifisso.
Susanna ricorda agli anziani e a quanti oggi si comportano come loro: «Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore corregge te. Osserva dunque i comandamenti del Signore tuo Dio» (Dt 8,5-6).
Chiediamoci dunque: che cosa impedisce alla nostra vita di comprendere il valore della Parola del Signore? Che cosa ci impedisce di mettere fiducia in Lui? «Hai dimenticato Dio che ti ha procreato!» (Dt 32,18)
Quello che ci rende difficile accettare la Parola del Signore è la profondità di conversione e di cambiamento che ci viene richiesto.
Per capire nel profondo di noi stessi la Parola, è necessario cambiare vita, dare al Signore il cento dei nostri pensieri e delle nostre forze. Questo è il primo grande ostacolo che bisogna superare: la tentazione di difendere la vita che noi costruiamo intorno a noi stessi, invece di accettare una vita costruita sulla Parola del Signore.
Nell’accogliere la Parola dobbiamo sentirne il peso fisico, perché la Parola scombina sempre i nostri piani, ma solo alla luce della gioia, della scoperta di una cosa bella può entrare nella nostra ferialità.
È l’esperienza di Susanna che vive la sua vita con fede facendo agire Dio e la sua opera di redenzione e non in coloro, che nonostante erano i Giudici del popolo, spegnevano il desiderio in gola, che mettevano i loro paletti, che credevano di possedere Dio.
In tutto questo c’è Qualcuno che ci insegna a mettere tutto nelle mani di Dio e a saperlo gridare: “l’abbiamo visto!” (Gv 20,25). Abbiamo visto lo stesso Signore che ogni giorno ci chiama ad aver uno sguardo, un sorriso, una speranza e una gioia incontenibile: a vivere quell’appartenenza a Dio.
Appartenere a Dio è l’incontro con il Signore, è un continuo ascolto reciproco tra Lui e noi, perché lui vuol far festa (Cfr. Dan 13,63), perché la Parola ascoltata deve arrivare oltre ogni confine. È un cammino fatto nella gioia a pieni orizzonti che ci libera da ogni azione di male.
Incontrare il Signore nelle strade dell’amore, dove l’Amore stesso vuole condurci significa che anche noi possiamo accogliere lo sfiduciato e depositare nel suo cuore, con quella stessa fiducia che abbiamo ricevuto, lo stesso amore che Dio continuamente riversa su di noi.

interrogarsi
1. Che cosa impedisce alla mia vita di comprendere il valore della Parola del Signore? Che cosa mi impedisce di mettere fiducia in Lui?
2. Sull’esempio di Susanna, come vivo la fedeltà a Dio e al popolo?
3. Nello spazio della mia vita prima o poi si impone una chiarificazione netta della vita. Che cosa vale veramente? Per che cosa sono disposto a perdere tutto?
4. Riconosco di appartenere a Dio che continuamente effonde su di me senza misura il dono dello Spirito Santo, per viverlo e farlo vivere?

preghiera
Vita della mia vita, sempre cercherò di conservare puro il mio corpo, sapendo che la tua carezza vivente mi sfiora tutte le membra. Sempre cercherò di allontanare ogni falsità dai miei pensieri, sapendo che tu sei la verità che nella mente mi ha accesa la luce della ragione. Sempre cercherò di scacciare ogni malvagità dal mio cuore e di farvi fiorire l’amore, sapendo che ha la tua dimora nel più profondo del cuore. E sempre cercherò nelle mie azioni di rivelare te, sapendo che è il tuo potere che mi dà la forza di agire (R. Tagore).

actio
Per la vita di ogni giorno lasciatevi accompagnare dalle parole del profeta Isaia: «Confidate nel Signore sempre, perché il Signore è una roccia eterna» (Is 26,4).

IL SERVO DI JHWH


invocare
Vieni Spirito Santo, tu che santifichi e dai vita: donaci uno sguardo vigilante che sappia discernere e penetrare le meraviglie compiute da Dio. Vieni Spirito Santo, tu che dai luce all’intimo splendore dell’anima: dissipa ogni ombra nascosta nelle profondità del cuore, rivelaci la bellezza e l’incanto che danno forma alla nostra esistenza. Vieni Spirito Santo, tu che penetri gli abissi e risvegli la vita: infondi in noi tenerezza e fiducia perché scorgiamo un frammento del tuo chiarore sul volto di ogni creatura. Vieni Spirito Santo, tu che accendi lo stupore degli occhi: ravviva i colori della speranza, inonda del tuo fulgore la storia e fai sorgere l’orizzonte atteso che realizza le promesse di pace.


lectio (Is 49,1-6 )
49,1 Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome. 2 Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra. 3 Mi ha detto: “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”. 4 Io ho risposto: “Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio”. 5 Ora disse il Signore che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele, - poiché ero stato stimato dal Signore e Dio era stato la mia forza - 6 mi disse: “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Ma io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”.




Con questo brano del secondo carme del Servo di JHWH, abbiamo una autobiografia nel quale il Servo parla della sua chiamata divina e della sua specifica vocazione-missione. Chi è questo servo?
È fuori dubbio – in tutti i capitoli del Secondo Isaia, che va dal cap 40 al 55 – che il servo è una figura individuale e al contempo è Israele. È molto importante perché anche nel Nuovo Testamento queste due dimensioni sono riprese. Non si contraddicono, una non cancella l’altra. Perché?
Perché il Messia impersona il popolo, pur essendo anche il suo Salvatore, naturalmente. Non è solo la sintesi del popolo, perché lo impersona. Ne è il rappresentante come il re.
Queste due dimensioni sono ambedue presenti. Ed è inutile continuare a litigare per dire “non è il popolo” o “lo è”: è tutte e due senza che questo schiacci o livelli il significato di ciascuna attribuzione.
È chiaro che “servo” è una cosa quando la si attribuisce al popolo e un’altra quando la si attribuisce al Messia. Questo legame profondo tra il Messia e il popolo, però, è fondamentale. E non bisogna perderlo.
Anche in Is 42,1-4 troviamo una presentazione del Servo di JHWH, ma questa volta è fatta da Dio, “l’ha suscitato Lui” (Cfr. Is 41,25). Il Signore dichiara che il suo Servo (‘ebed) che è un eletto (bahîr) e che la sua elezione è stata accompagnata da una particolare effusione dello Spirito «Ecco il mio servo (‘ebedî) che io sostengo, il mio eletto (behîrî) di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito (ruhî) su di lui; egli porterà il diritto (mis¹pat) alle nazioni» (Is 42,1).
L’appellativo eletto (bahîr) appartiene oltre che al Servo di JHWH ad Israele, a tutto il popolo di Dio (Is 41,8-9; 43, 10.20; 44,2; 45, 4; 48, 10), ma con una differenza: il popolo non realizza la sua vocazione, perché cieco e sordo (Is 42,18-19), mentre il Servo sì, riesce ad ascoltare e vedere.
In quest’appellativo possiamo cogliervi l’elezione divina accompagnata dall’effusione dello Spirito (rûah), che fa del Servo un carismatico, un capo del popolo tanto da avvicinarlo alla vita dei profeti.
Questo servo-profeta è presentato da Dio come colui che ha ricevuto il compito di proclamare davanti a Israele e alle nazioni il diritto (mis¹pat) e la divina rivelazione (torah) (Is 42,4), perché sia da tutti osservata (Cfr. Lc 4, 16-21).
Il Servo di JHWH rievocando e riconoscendo la propria chiamata radicata nel suo essere, la identifica con la sua stessa vita: «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome» (Is 49,1).
In questo versetto vi è racchiusa la vocazione, perché il verbo chiamare in parallelo sinonimico con fare memoria del nome, è un verbo vocazionale che in Is 49,1, conserva quella forza dialogica e dinamica.
Dio chiama (qara’) il suo Servo e fa memoria del suo nome fin dal seno di sua madre. È un passaggio dal non essere all’essere, inizia ad esistere come Servo del Signore (‘ebed JHWH).
In tutto questo il Servo del Signore guarda alla sua vocazione-missione come a qualcosa di costitutivo del suo stesso essere.
Per esprimere questa qualità-verità di servo, il Servo di JHWH utilizza il verbo formare, plasmare, modellare (jasar) (Cfr. Ger. 1,5a): «Ora disse il Signore che mi ha plasmato (josrî) suo servo dal seno materno» (Is 49,5).
In questo versetto il verbo plasmare è importante sia nel contesto della creazione e sia nel contesto della vocazione, perché evidenzia la piena unità nella persona del Servo tra chiamata alla vita, chiamata alla fede e chiamata profetica. Questo significa che Dio ha plasmato fin dal seno di sua madre il suo Servo a vivere una vocazione alla vita e al contempo una vocazione specifica che si identificano e si armonizzano perfettamente nell’unità della sua persona.
Quale è questa missione? Il v. 2 recita così: «2aHa reso la mia bocca come spada affilata, 2bmi ha nascosto all’ombra della sua mano, 2ami ha reso freccia appuntita, 2bmi ha riposto nella sua faretra».
Ho suddiviso il versetto in “a” e “b” per descrivere i concetti espressi nella chiamata divina. Uno relativo alla missione (2a) e uno relativo alla protezione divina (2b).
Ogni chiamata, se ci fate caso, racchiude sempre questi aspetti. Il servo è consapevole di essere per vocazione “bocca” di Dio, ponendosi nella linea di quanti lo hanno preceduto nell’esercizio del ministero profetico della Parola. Ma il servo è colui che si nutre di quanto esce dalla bocca di Dio (Dt 8,3).
Simboli di questo nutrimento sono la spada e la freccia i quali saranno strumento di forza penetrante, capacità di raggiungere i destinatari della sua missione, sia quelli vicini (spada) che quelli lontani (freccia).
Armato della Parola di Dio che Dio ha posto sulla sua bocca, il Servo di JHWH, quale prode guerriero (Cfr. Sal 45,4-6; Gdc 6,12), assolve alla sua missione di portare il diritto e la dottrina a tutte le genti (Is 42, 1.4).
Come bocca del Signore e protetto da Dio, il Servo è destinato ad essere strumento della manifestazione della sua gloria diffondendola:
«Mi ha detto: “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”» (v. 3).
Questo cammino di servizio può arrivare al fallimento (Cfr. v. 4), ma non come accadde a Mosé (Es 4,10) o a Geremia (Ger 1,6), ma dalla stessa missione, dalla sua attività profetica.
In tutto questo il profeta è colui che affronta gli ostacoli facendo ricorso a tutta la sua fede, al fine di conservare integra la sua fiducia in Dio.
Dentro questa situazione di fallimento non perde la speranza e continua a lavorare non per risultato o per interessi personali, ma unicamente per restare fedele a Dio e a se stesso (cfr. v. 4).
È un cammino che ci induce a lamentarci col Signore, ma nello stesso momento è un cammino che fa scoprire, passo dopo passo, lo scopo della vita fino ad arrivare a Lui. Questo fa eco alla stessa risposta che Dio da’ al suo Servo reintegrandolo nella sua missione (v. 5).
Al v. 5 viene descritta questa missione con due verbi “ricondurre” o “convertire” (sûb) e il verbo “riunire” o “raccogliere” (‘asaph). Due verbi che possono anche indicare una restaurazione socio-politica, ma qui vogliono più che altro parlare di una restaurazione di ordine spirituale. Infatti, il Servo è Colui che ha ricevuto il mandato di convertire Israele, cioè di farlo tornare al Dio dei padri, dal quale si era allontanato per prostrarsi ad altri idoli (Cfr. Is 44, 21-23).
In questa dimensione spirituale della missione del Servo vi è un cammino di salvezza descritto dal verbo “riunire”. Chi si mette a servizio di JHWH sa benissimo che è chiamato a riunire i figli dispersi, a ricostruire l’unità dei figli intorno a Dio per poter unirli a lui in alleanza. Questo significa che la novità della missione non è limitata ad una cerchia di persone, ma è estesa a tutte le nazioni, così come è descritto dal v. 6.
Infatti se inizialmente la missione del Servo tendeva a far compiere ai superstiti del popolo un nuovo esodo, adesso è costituito luce delle nazioni, quella stessa luce escatologica che per il ministero del Servo del Signore risplenderà sul popolo di Dio e per mezzo dello stesso servo estesa e comunicata a tutti i popoli della terra (Cfr. At 9,15; 22,15).
Di fronte a questa chiamata, che richiede da lui una fedeltà quotidiana alla missione anche a costo della vita (Is 50,6), il Servo rivela quello che possiamo considerare il suo atteggiamento di sempre: «Non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro» (Is 50,5; Cfr. Gv 18,1-11).
Questo atteggiamento, se da una parte evidenzia quella che possiamo considerare la risposta iniziale del Servo alla chiamata di Dio, dall’altra manifesta la sua capacità di comprendere, attraverso l’ascolto assiduo della parola di Dio, il disegno che il Signore ha su di lui e di aderirvi, attualizzando momento per momento il suo “sì” iniziale.

interrogarsi
1. Cosa dice a te la parola “Servo”?
2. Porto paure dentro di me oppure “non oppongo resistenza”?
3. Come nutro il mio sì iniziale per mettermi al servizio del popolo di Dio?
4. La Parola di Dio è il mio primo strumento per capire il disegno che il Signore ha su di me?
5. Quale vocazione alla vita vivo ogni giorno?

preghiera
Signore Gesù, ti ringraziamo per la tua Parola che ci ha fatto capire meglio la volontà del Padre. Fa che il tuo Spirito illumini le nostre azioni e ci comunichi la forza per eseguire quello, che la Tua Parola ci ha mostrato. Fa che noi, sull’esempio di Maria, serva della Parola e tua Madre, possiamo non solo ascoltare ma anche praticare la Parola, Tu che vivi e regni con il Padre nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

actio
Orientati sulla Parola di Dio per approfondire la coscienza della tua missione cercando forza nella preghiera

DEBORAH

invocare
O Spirito di verità, che parlasti per bocca dei patriarchi e dei profeti, e riempisti le Sacre Scritture di celesti dottrine, di salutari precetti e di paterni ammonimenti, degnati di ritornare a parlarci affinchè la verità torni a regnare nel nostro cuore. Amen.

lectio (Gdc 4,4-9.14.16)
4, [4] In quel tempo era giudice in Israele una profetessa, Debora, moglie di Lappidot. [5] Essa sedeva sotto la palma che porta il suo nome, fra Rama e Betel, nella montagna di Efraim, e gli Israeliti salivano da lei per le loro vertenze giudiziarie. [6] Un giorno essa mandò a chiamare Barak, figlio di Abinoam, da Kedes di Neftali, e gli disse: «Il Signore, Dio di Israele, ti ordina di andare ad arruolare sul monte Tabor diecimila uomini delle tribù di Neftali e di Zabulon e di portarli con te. [7] Io attirerò verso di te, al torrente Kison, Sisara, comandante dell'esercito di Iabin, con i suoi carri e le sue truppe e lo metterò nelle tue mani».
[8] Barak le disse: «Se verrai con me, ci andrò, ma se tu non verrai con me, io non mi muoverò». [9] Rispose Debora: «Vengo senz'altro, solo che la gloria dell'impresa alla quale ti accingi non sarà tua, perché il Signore metterà Sisara nelle mani di una donna». Poi Debora si mosse e andò a Kedes con Barak. [14] Disse allora Debora a Barak: «Alzati, perché questo è il giorno in cui il Signore metterà Sisara nelle tue mani. Il Signore non esce forse in campo davanti a te?». Barak scese dal monte Tabor e i suoi diecimila uomini lo seguirono. [16] Barak inseguì i carri da guerra e la fanteria fino a Caroset-Goim: tutto l'esercito di Sisara fu passato a fil di spada e non si salvò nessuno.


Il libro dei Giudici occupa il periodo che va dalla morte di Giosuè all’istituzione della monarchia in Israele (1200-1025 a.C.) e presenta fatti staccati e particolarmente importanti relativi ai dodici "giudici", fra questi Debora.
I "giudici" erano capi militari e politici che Dio suscitò in quel periodo per risolvere le crisi che il popolo di Israele viveva venendo a contatto con le popolazioni indigene e idolatre al momento del suo insediamento in Palestina.
Le storie sono narrate secondo un preciso modello letterario e teologico:
- "Israele pecca contro Dio".
- "Dio lo consegna nelle mani dei suoi nemici".
- "Gli israeliti piangono".
- "Dio manda un "giudice" a salvarli e liberarli".
- "La terra ha pace per un periodo più o meno lungo (di solito 40 anni)".
Lo scopo è quello di insegnare che le crisi e le difficoltà di Israele trovano il loro fondamento nella sua infedeltà a Dio, quando cede alle suggestioni dell'idolatria. Da queste crisi solo Dio, che ha pietà delle sofferenze del popolo, potrà liberarlo (Gdc 2,11-19). Debora è l'unica donna detta "giudice" ed agisce nel senso moderno del termine risolvendo le dispute che sorgevano tra il popolo.
La Bibbia ricorda anche il luogo dove emetteva le sue sentenze: sotto la palma di Debora tra Rama e Betel, sulle montagne di Efraim" (4,5). A Debora si affianca Giaele, un'altra eroina del libro, che ucciderà Sisara, capo dell'esercito nemico.
La storia è ripetuta nei capitoli 4 e 5, nel primo in forma narrativa, nel secondo in forma poetica, dove la poesia raggiunge il suo apice nel "canto di Debora" che probabilmente, secondo l'opinione comune degli studiosi, è la più antica composizione della Bibbia.
Quale pro-vocazione troverà la nostra lectio? Ritrovare fiducia nel Signore, di ritrovare quel dia-Logos, quel credere che il Cristo, il Logos fattosi carne, costituisce il ponte di comunicazione profonda tra Dio e l’umanità peccatrice e l’umanità tra loro.
Il brano ci richiama spontaneamente alla creazione della donna descritta dalla riflessione sapienziale del Genesi: «Non è bene che l’uomo sia solo. Gli farò un aiuto, adatto a lui» (Gen 2,18).
Fin da questa citazione, l’uomo e la donna appaiono come unità dei due, che porta quella capacità di esprimere l’amore, quell’amore nel quale si diventa dono, attuando il senso stesso del suo esistere reciprocamente l’uno per l’altro. Infatti, il primo passo da compiere nella nostra vita ordinaria è quello di affidarsi alle mani, alle braccia, all’ascolto dell’altro. La fede prima di essere un atto religioso, è un atto umano della persona. Tutti in qualche modo crediamo a qualcosa e ci affidiamo a qualcuno o mettiamo fiducia in qualcuno, tutti in qualche modo veniamo cercati come persone cui potersi affidare perché ritenuti affidabili. Questo significa che da soli non siamo sufficienti a noi stessi. Ci sarà sempre un Pietro che dirà: «Signore, dove andremo senza di te. Tu solo hai parole che danno la vita eterna» (Gv 6,68) o Gesù che ripeterà al nostro cuore: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5).
Abbiamo letto che Debora esercita il suo ruolo sotto una palma (v.5). La palma è un simbolo molto importante per la vita di chi confida nel Signore. Essa, nella sua simbologia, ricorda ciò che è elevato, ciò che è sublime e come non ricordare qui la sapienza divina «cresciuta come una palma in Engaddi» (Sir 24,14); o del Giusto che «fiorirà come palma», e vivendo all’ombra di essa porterà i suoi frutti (Sal 92,13).
La Palma che è sopra Debora, la tradizione cristiana l’ha voluta tradurre dall’ebraico con la parola greca phoinix, che è il nome greco della palma, ma allo stesso tempo è il nome dell’uccello che chiamiamo fenice. La fenice è il simbolo dell’immortalità, perché si immaginava che quell’uccello rinascesse dalle sue ceneri.
Anche noi, cristiani di oggi, facciamo quest’esperienza, partecipando alla morte di Cristo: «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,3-4).
Debora si presenta come la figura del giusto, tratteggiata come in un dipinto vasto e denso di colori a differenza dell’empio che viene visto come l’erba dei campi, ma effimera. Il giusto si erge verso il cielo, solido e maestoso come la palma e il cedro del Libano.
Questo significa che il giusto, Debora, anzitutto si riconosce persona e in quanto tale è un “essere in relazione”. Infatti, ha una relazione con la casa del Signore e quindi con Lui. Di lei il sapiente scrive: «I giusti si esprimono con saggezza e parlano sempre con onestà: hanno nel cuore la parola del loro Dio, il loro cammino non sarà mai incerto» (Sal 37, 30-31).
Nel Signore Debora ha riposto la fiducia e in Lui ha stabilito la sua dimora. Questa donna ha descritto questa fiducia in Dio cercando il senso perduto. All’umanità sfinita, distrutta, senza speranza, che ogni giorno dice: “La mia vita è giunta all’estremo, provo disgusto per la mia esistenza, è insipida, senza sale e significato…” (S. Kierkegaard), Debora si fa per questi il sale della vita, perché «se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini» (Mt 5,13).
Debora è colei che ha ridato sapore alla vita del credente ridando sapore alla vita e come un’ape vola verso i “nuovi orizzonti”, dimostrando che Dio ha bisogno dell’umanità e così viceversa.
Anche noi dobbiamo essere come un’ape che rientra all’arnia con i cestelli stracolmi di polline di vari colori, di varie specie di fiori. E nel ventre di questi laboriosi insetti, nettare di fiori diversi. Eppure il diverso polline, il vario nettare nulla tolgono al gustoso miele che riempie il favo: la diversità concorre alla ricchezza. È l’impasto che questi insetti danno alla varietà di polline e di nettare dentro il loro corpo che fa del diverso e del vario, un cibo gustoso come il miele, chiamando ciascuno all’incontro con Lui per richiamarlo all’amicizia e alla scoperta di un percorso da compiere.
Questo percorso è descritto nei vv. 6-7 ricordando, anzitutto, chi è Dio nella nostra vita. Egli dal buio della notte al chiarore del mattino, fino alla luce del giorno si rivela, nel cammino della vita, come «La luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9).
Debora colma di questa “Luce” invita e richiama Barak a fare quest’incontro col Signore sul Tabor, come Pietro Giacomo e Giovanni, dopo aver ascoltato le condizioni per seguire Cristo Gesù, furono invitati a salire su un alto monte – il Tabor – perché quest’incontro avvenisse in tutta purezza, trasparenza (Cfr. Mt 17,1-8)
Per fare quest’incontro, la Parola di Dio ti mette in movimento verso il monte: è una “anagogia ministeriale” che avviene in quanto, trasportati verso l’alto, la Parola diventa sfondo glorioso, luminoso che rende capaci alla lettura sapienziale delle cose. Il monte è il luogo dove avviene la lettura sapienziale delle cose, richiamando la solitudine del Sinai dove Ezechiele dice che Israele era “nell’età dell’amore” (Ez 16,8). Il monte, quindi è un luogo per innamorati. Intimo, lontano dagli sguardi. Esso richiama anche l’Oreb dove Elia viene sfamato e dissetato mentre vede il volto di Dio dopo i penosi quaranta giorni di deserto (1Re 19,8.11). Debora ripete a tutti su questo monte: «Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio, e narrerò quanto per me ha fatto» (Sal 66, 16).
Il monte, ancora, è il luogo della sazietà spirituale: “un banchetto preparerà Dio su questo monte” (Is 25,6).
Guardando e leggendo attentamente la Parola di Dio, troveremo il percorso salvifico che Dio stesso ha tracciato, con la sua Parola, nel cammino esodale di Israele «Travolgendo il faraone e il suo esercito nel mar Rosso» (Sal 136, 15), «e mentre il tuo popolo intraprendeva un viaggio straordinario essi incorressero in una morte singolare» (Sap 19,5), oggi traccia il nostro cammino.
Ma quanta fatica facciamo a vedere questo cammino! Camminare significa aprire strade invisibili, significa avanzare portando nel cuore il mistero di una presenza e abbracciarla. Significa insieme all’Apostolo Pietro «Rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15), cioè esercitare un apostolato o una missione richiesti dalla stessa essenza dell’essere cristiano, perché il cristiano è un dono per l’altro, se no non è cristiano.

interrogarsi
1. Quale ricerca di senso nella mia vita ordinaria?
2. “Volo” anch’io come Debora, per superare i vari confini che chiudono il mio essere cristiano/a?
3. Mi faccio mettere in movimento dalla Parola, per testimoniare il mio battesimo nella Chiesa e per la Chiesa?
4. Nel mio quartiere, a scuola, nelle amicizie sono capace di dare sapore alla vita?

preghiera
Acclamate a Dio da tutta la terra,
cantate alla gloria del suo nome,
date a lui splendida lode.
Dite a Dio: “Stupende sono le tue opere!
A te si prostri tutta la terra,
a te canti inni, canti al tuo nome”.
Venite e vedete le opere di Dio,
mirabile nel suo agire sugli uomini.
Egli cambiò il mare in terra ferma,
passarono a piedi il fiume;
per questo in lui esultiamo di gioia:
con la sua forza domina in eterno.
Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio,
e narrerò quanto per me ha fatto.
Sia benedetto Dio che non ha respinto la mia preghiera,
non mi ha negato la sua misericordia (Salmo 66).

actio
Cerca con umiltà di cuore mediante un’assidua lettura della Bibbia, la verità che scaturisce da essa e abbracciala per la vita

RAAB

invocare
Concedi, o Dio di accostarci con umiltà e santo timore a questa Parola che ci supera infinitamente; a questa realtà che è mistero della tua presenza.
Fà che là dove la nostra mente non può arrivare giunga il nostro cuore mediante l’intuizione dell’amore; e tutto il nostro essere taccia davanti a Te, Ti contempli e Ti adori. Amen (Gregorio Battaglia, O.Carm.).

lectio (Gs 2,1-11.14.18-21)
2, [1] In seguito Giosuè, figlio di Nun, di nascosto inviò da Sittim due spie, ingiungendo: "Andate, osservate il territorio e Gerico". Essi andarono ed entrarono in casa di una donna, una prostituta chiamata Raab, dove passarono la notte.
[2] Ma fu riferito al re di Gerico: "Ecco alcuni degli Israeliti sono venuti qui questa notte per esplorare il paese". [3] Allora il re di Gerico mandò a dire a Raab: "Fà uscire gli uomini che sono venuti da te e sono entrati in casa tua, perché sono venuti per esplorare tutto il paese". [4] Allora la donna prese i due uomini e, dopo averli nascosti, rispose: "Sì, sono venuti da me quegli uomini, ma non sapevo di dove fossero. [5] Ma quando stava per chiudersi la porta della città al cader della notte, essi uscirono e non so dove siano andati. Inseguiteli subito e li raggiungerete".
[6] Essa invece li aveva fatti salire sulla terrazza e li aveva nascosti fra gli steli di lino che vi aveva accatastato. [7] Gli uomini li inseguirono sulla strada del Giordano verso i guadi e si chiuse la porta, dopo che furono usciti gli inseguitori.
[8] Quelli non si erano ancora coricati quando la donna salì da loro sulla terrazza [9] e disse loro: "So che il Signore vi ha assegnato il paese, che il terrore da voi gettato si è abbattuto su di noi e che tutti gli abitanti della regione sono sopraffatti dallo spavento davanti a voi, [10] perché abbiamo sentito come il Signore ha prosciugato le acque del Mare Rosso davanti a voi, alla vostra uscita dall'Egitto e come avete trattato i due re Amorrei, che erano oltre il Giordano, Sicon ed Og, da voi votati allo sterminio. [11] Lo si è saputo e il nostro cuore è venuto meno e nessuno ardisce di fiatare dinanzi a voi, perché il Signore vostro Dio è Dio lassù in cielo e quaggiù sulla terra.
[14] Gli uomini le dissero: "A morte le nostre vite al posto vostro, purché non riveliate questo nostro affare; quando poi il Signore ci darà il paese, ti tratteremo con benevolenza e lealtà".
[18] Quando noi entreremo nel paese, legherai questa cordicella di filo scarlatto alla finestra, per la quale ci hai fatto scendere e radunerai presso di te in casa tuo padre, tua madre, i tuoi fratelli e tutta la famiglia di tuo padre. [19] Chiunque allora uscirà dalla porta di casa tua, il suo sangue ricadrà sulla sua testa e noi non ne avremo colpa; chiunque invece sarà con te in casa, il suo sangue ricada sulla nostra testa, se gli si metterà addosso una mano. [20] Ma se tu rivelerai questo nostro affare, noi saremo liberi da ciò che ci hai fatto giurare". [21] Essa allora rispose: "Sia così secondo le vostre parole". Poi li congedò e quelli se ne andarono. Essa legò la cordicella scarlatta alla finestra.


Un brano un po’ lungo ma che vale la pena leggerlo per esteso insieme ai capitoli seguenti del medesimo Libro, oppure saltando al 6,22-25.
Chi è Raab? Cosa c’entra in questa lectio vocazionale, dato che la storia, la Bibbia ci dice che era una prostituta di Gerico?
Raab il cui nome in ebraico significa “grande”, rientra nella geneaologia di Gesù, che Matteo descrive nel suo Vangelo ricordandola insieme ad altre quattro donne: Rut la moabità; Betsabea, moglie di Uria, di cui si innamorò David, è la causa dell’assassinio di suo marito e Tamar e Raab due prostitute.
Questo ci fa dire che anche nell’albero genealogico di Gesù vi è qualche “laguna nera”. Per questo la salvezza è destinata a tutti, iniziando proprio dai peccatori. I peccatori, i lontani, quelli che non facevano parte dell’anagrafe parrocchiale, questi sono i Suoi parenti (cfr Lc 15,1-7): «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9,13; Mc 2,17; Lc 5,32).
Nel simbolo di quella corda scarlatta da appendere, possiamo cogliere il perdono dei peccati (cfr. vv. 18-21). E i Padri della Chiesa hanno letto un riferimento alla salvezza procurataci attraverso il “sangue di Cristo”.
Raab sarà ricordata come antenata di Gesù (era la madre della bisnonna di Davide), però agli occhi del Signore, sarà ricordata come parente stretta del Figlio di Dio (Cfr. Lc 8,21).
Ella ospitò i due Esploratori ebrei, che Giosué aveva mandato in avanscoperta per rendersi conto delle possibilità di conquistare la città e, così, entrare facilmente nella Terra promessa. In questo contesto di scena Raab si presenta a ciascuno di noi animata da profondo senso di umanità, come colei capace di accogliere.
La Bibbia, presenta più volte questa capacità di accoglienza. Ricordiamo in Lc 19,1-10 Zaccheo, “capo dei pubblicani” a Gerico; in Lc 7,36-50 “Simone il fariseo” a Cafarnao; in Lc 10,38-42 a casa degli amici Lazzaro, Marta e Maria a Betania; in Lc 24,13-35 nella casa di Cleopa ad Emmaus, per non dimenticare in Gen 18,1-15 l’accoglienza di Abramo alle querce di Mamre.
In questi brani, ma sopratutto in ogni pagina della Bibbia, scorre «l’oggi del compimento delle Scritture» perché è l’oggi della salvezza (soteria). Nella Bibbia, infatti, Dio passeggia. Samt’Ambrogio riflettendo su Gen 3, 8 dice: «Dio passeggia nel paradiso quando leggo le Divine Scritture» (Lettera 49,3-4). Gli esploratori che mirano a Gerico e si fermano nella casa di Raab, sono il passaggio di Dio nella vita di ciascuno di noi, che ci chiama a condividere la sua stessa vita, che vuole fermarsi nella nostra casa, cioé nella vita di tutti i giorni.
Raab ha scoperto Dio “che passeggiava”, ha scoperto la bellezza di Dio e quella Parola divina si è trasformata per lei in “luogo della intimità”. La Parola in quel momento per Raab si è trasformata in anagogìa (dal greco “anagogé”: “aná”: su e “ágo”: io conduco), cioé la visita degli Esploratori la “condotta, trasportata verso l’Alto”, ha fatto sì che la Parola del Signore diventasse anagogià per lei, specialmente quando ha visto e riconosciuto la sua vita mescolata alla sua sofferenza.
La Parola per questa donna peccatrice diventa sfondo glorioso, luminoso che la rende capace di leggere sapientemente le cose che la circondavano, proprio quando queste cose sono impregnate di non senso sotto l’aspetto umano, di dolore all’ultimo grado.
Perché Raab fa questa riflessione? Ella riesce a trovare la nuova chiave della vita proprio nella Bibbia: DABAR che significa Parola di Dio, sfondo luminoso della realtà; e MIDBAR che significa deserto, luogo del dolore, luogo abitato dai demoni.
Allora il DABAR si manifesta nella durezza del MIDBAR: proprio lì dove non ti aspetteresti nessuna rivelazione, la Parola si rivela: «Io Sono il Signore tuo Dio, io ti prendo per mano e ti dico: non temere, sono qui per aiutarti» (Is 41,13).
Raab scopre il suo futuro nella Parola del Signore, nella presenza dei due esploratori dentro di sé ode gli avvenimenti della divina parola: «Non temere: tu sei mio», «per me tu sei molto prezioso, io ti stimo e ti amo», «io sono con te» (Is 43,1.4-5).
La vita di Raab, la sua casa è diventata dimora della salvezza perché la Parola di Dio l’ha cambiata dentro, perché accogliere la Parola significa esigenza di una vita diversa, una mentalità diversa. Raab da una vita contorta, accatastata (cfr. v. 6) diventa una donna nuova. Infatti, «Per cantare un cantico nuovo spogliatevi di tutto ciò che è vecchio. Un testamento nuovo non appartiene a uomini vecchi. Non possono imparare un cantico nuovo se non uomini nuovi» (Sant’Agostino, Commento al Salmo 32).
La vocazione in Raab sta proprio in questo cambiamento, in questa conversione alla Parola di Dio, tanto da trasformarla in “donna folle” per Dio. Una donna dallo stile generoso di Dio per irrobustire la speranza così tenue e precaria del mondo.
Uno stile che nasce dalla fede (cfr. v.11), una fede che i Padri della Chiesa hanno visto preannunciata la fede con cui le nazioni pagane avrebbero abbracciato il vangelo: per questi motivi, Raab viene annoverata fra le «primitiae gentium», cioé la “primizie dei pagani”.
Di Raab non sapremo più nulla (qualche citazione sparsa), ma ciò che è sicuro, il Signore ha scelto di fermarsi nella sua vita e di risanare il cuore.
La parola, nella potenza dello Spirito, ha trasformato quel colloquio occasionale in un incontro determinante. C’é la possibilità di un “passaggio”. occorre fermarsi, accogliere lo sconosciuto, egli non può “continuare nella notte il suo viaggio” se prima non lo si accoglie nella propria casa.
Il passaggio per Raab si è trasformato in “lasciare tutto”, quella prontezza che troveremo in ogni storia vocazionale. Ella continuerà a bere alle sorgenti della Parola, che anche se antenata di Cristo, Raab beve Cristo che è la vite, la sorgente della nuova vita. Ella si disseta alle sorgenti della nuova Parola passando continuamente dalla desolazione alla consolazione, dalla sfiducia alla speranza, dalla solitudine alla gioia di aver scoperto una nuova famiglia, da amare, da custodire, da condurre: una famiglia che oggi noi chiamiamo Chiesa;

interrogarsi
1. Come accogli nella tua vita ordinaria la Parola di Dio?
2. Quali gesti di umanità, ispirati dalla fede, vivi ogni giorno?
3. Quale passo nella tua vita che diventa possibilità di un “passaggio”?
4. Quale prontezza vivi ogni giorno per poter anche tu “lasciare tutto” per dedicarti ad una “nuova famiglia”?

preghiera
Padre, insegnami la sapienza del tempo presente, per entrare nell’oggi della tuo volere e vivere il servizio del domani. Concedimi la capacità dell’ascolto, perché possa sentire la Parola del tuo Figlio Gesù nelle mie orecchie e nel mio cuore e credere che questo è l’oggi della salvezza.
Ti prego di aprire sempre i miei occhi per poterti sempre riconoscere e farti posto nella mia vita di ogni giorno.
Nell’oggi della chiamata, possa essere pronto/a a rispondere all’oggi della salvezza che entra nella mia casa, per fare della mia vita un dono pieno per tutti. Amen

actio
Interrogarsi sulla dimensione vocazionale della propria esistenza, a partire dalla capacità di accogliere il messaggio liberante della Parola di Dio che ci pone in attesa della sua venuta