sabato 21 maggio 2011

ESTER

Invocare
Spirito di verità, inviatoci da Gesù per guidarci alla verità tutta intera, apri la nostra mente all’intelligenza delle Scritture. Fa’ che possiamo leggere la tua Parola liberi dai pregiudizi, perché possiamo meditare il tuo annuncio nella sua integrità e non selettivamente. Fa’ che impariamo ad ascoltare con cuore buono e perfetto la Parola che Dio ci rivolge nella vita e nella Scrittura, per custodirla e produrre frutto con la nostra perseveranza nella vita di ogni giorno con i tuoi stessi sentimenti e la tua stessa misericordia. Tu che vivi con il Padre e ci doni l’Amore, amen.

Leggere (Est 3,8-9; 4,13-17a)

3, [8] Amàn disse al re Assuero: "Vi è un popolo segregato e anche disseminato fra i popoli di tutte le province del tuo regno, le cui leggi sono diverse da quelle di ogni altro popolo e che non osserva le leggi del re; non conviene quindi che il re lo tolleri. [9] Se così piace al re, si ordini che esso sia distrutto; io farò passare diecimila talenti d'argento in mano agli amministratori del re, perché siano versati nel tesoro reale".
4, [13] Mardocheo fece dare questa risposta a Ester: "Non pensare di salvare solo te stessa fra tutti i Giudei, per il fatto che ti trovi nella reggia. [14] Perché se tu in questo momento taci, aiuto e liberazione sorgeranno per i Giudei da un altro luogo; ma tu perirai insieme con la casa di tuo padre. Chi sa che tu non sia stata elevata a regina proprio in previsione d'una circostanza come questa?". [15] Allora Ester fece rispondere a Mardocheo: [16] "Và, raduna tutti i Giudei che si trovano a Susa: digiunate per me, state senza mangiare e senza bere per tre giorni, notte e giorno; anch'io con le ancelle digiunerò nello stesso modo; dopo entrerò dal re, sebbene ciò sia contro la legge e, se dovrò perire, perirò!". [17] Mardocheo se ne andò e fece quanto Ester gli aveva ordinato. [17a]Poi pregò il Signore, ricordando tutte le sue gesta.

Meditare Lo sfondo storico dello scritto biblico è fittizio: ci riporta all’epoca del re Assuero, il persiano Serse I, morto nel 465 a.C. In realtà, il libro di Ester riflette un periodo più recente di persecuzioni antisemite, quello siro-ellenistico del II secolo a.C. che vide la rivolta dei Maccabei.

Ester, chiamata anche Hadassah (Est 2,7) che in ebraico significa “mirto”, è una delle donne più conosciute e ricordate in Israele, anche perché in suo ricordo ogni anno viene celebrata la festa dei Purìm (= sorti).
La sua vita è descritta nell’omonimo libro ove il nome di Dio, nella versione ebraica, rimane celato, nascosto.
Sembra strano ma Dio più si limita, meno interviene, più è necessaria l'assunzione da parte di ciascuno della sua specifica identità umana. Dio, di fronte all'uomo, non può fare altro - come suggerisce un grande mistico del 1500, Itschaq Luria - che contrarsi, nascondersi in se stesso, fingere di essere nulla: solo così può lasciare uno spazio di autonomia e di responsabilità all'uomo.
Nel libro, infatti, appare una salvezza conseguita attraverso l’abilità di Mardocheo e il fascino di Ester, quindi elementi umani e non mediante intervento divino, anche se si afferma chiaramente che Egli guida le vicende umane e si prende cura del suo popolo.
Ester, «donna di presenza bellissima e di aspetto affascinante» (2,7), vive col cugino Mardocheo che l’ha adottata durante il terrore di una strage di ebrei ordinata da un editto reale, voluto dal primo ministro Aman, fieramente avverso a Israele.
Insieme a questa donna, il cui nome nella tradizione rabbinica significa “la nascosta” mentre in persiano “stareh”, “stella”; la forma originaria è rappresentata dal nome della dea babilonese Ishtar appaiono altre due persone contrapposte: Mardocheo e Aman.
Mardocheo rappresenta quel “resto” (Cfr. Is 10,20ss) che Dio si riserva in ogni generazione per far conoscere il suo nome alle nazioni affinché queste si incontrino con l’Autore della vita.
Aman, invece, è il simbolo del nemico, di Satana, che costantemente insidia e vuole distruggere gli eletti di Dio perché non ci sia salvezza per l’umanità e questi resti «nelle tenebre e nell’ombra di morte» (Lc 1,79).
Ma guardiamo a questa lectio come una parabola che Dio stesso vuole offrirci, per farci comprendere cosa vuole dalla nostra vita. A ciascuno di noi “scoprire il cuore di Dio nelle parole di Dio, perché possa con ardore anelare alle realtà eterne” (San Gregorio Magno).
Il versetto che a mio avviso fa da chiave per noi è il 4,14: «Chi sa che tu non sia stata elevata a regina proprio in previsione d'una circostanza come questa?».Ester è chiamata attraverso la storia al discernimento. Infatti, “La Scrittura è la storia di quel giudizio-discernimento che il Dio vivente compie nella trama dell’esistenza d’Israele e della Chiesa, e in secondo luogo, del discernimento che l’uomo, chiamato nella comunità dei redenti, deve operare per entrare nel piano di Dio” (J. Guillet). Ester è cosciente che «Il Signore Dio la prese e la pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15).
Ester è chiamata a non fuggire dalla sua realtà e dalla propria identità (Cfr. Gio 1,3), neanche quando ci si avvicina al potere che apparentemente tutto risolve: arriva comunque un momento in cui deve rispondere ad una sollecitazione esterna, spesso urgente, se non ad una spinta interna. E questa pressione, nel caso della nostra storia in forma molto evidente, è stretta conseguenza della assenza di Dio (Cfr. 1Re 17).
In questo versetto vi è la chiamata in un pieno silenzio per fermarsi ed ascoltare l’ascolto di Dio, perché Dio è colui che sempre ripete: «Ho osservato la miseria del mio popolo … ho udito il suo grido» (Es 3,7).
È in quest’ascolto che Ester diviene nella sua piccolezza e nel suo nascondimento dono per l’altro, dono per il suo popolo come difesa dal nemico perché sa che «Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita» (Sal 16,5). Sa che non è il potere, le cose della terra che deve possedere, ma le cose di Dio vera ricchezza da trasmettere e da cui tutto il resto deriva (Cfr Est 4,16).
Ester, dopo aver ascoltato, è chiamata - nonostante il suo fascino - a trasformazione e questo lo vuole fare attraverso la preghiera meno pagana e più confidente (Cfr. Mt 6,7-8) realizzando quanto scrive l’Autore della Lettera agli Ebrei: «Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime… e fu esaudito per la sua pietà» (Eb 5,7).
In questa preghiera Ester si confonde con il suo popolo e passa dal singolare al plurale perché la sua voce si trasforma in quella del suo popolo oppresso (Cfr. Es 34,9; Dt 9,26).
Alla base di questa invocazione c'è la certezza dell'invincibilità dell'amore divino il quale interverrà operando un vero e proprio ribaltamento (Cfr. Dn 10,10-12), come quello annunziato dai profeti per il “giorno del Signore”: l'empio che si era esaltato sarà umiliato, il perseguitato sarà intronizzato e glorificato, alla morte subentra la vita, allo sterminio la salvezza (Cfr. Is 2,9; 5,15; Lc 14,11; 18,14).
C’è un percorso umano dove tutti siamo chiamati a preoccuparcene. Questo percorso è l’amore che ci conduce a farci carico dell’altro in ogni sua necessità, ad essere «Partecipi delle gioie e dei dolori degli altri» (1Pt 3,8), a «Portare i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6,2). Questo percorso è un insegnamento di Dio che a sua volta insegna ad ascoltare per servire.
Quest’insegnamento di Dio passa da una preghiera sofferente, dove vi è la creatività di affidarsi al braccio di Dio, al suo atto creativo. La sua preghiera è un «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori» (1Pt 3,15).
Ester, in quest’atto creativo, ha trovato la parola di Dio per sé e per il suo popolo ed incarna l’intervento di Dio operando sull’uomo nella sua stessa storia: rabbia, pianto, paura, desiderio, attesa, speranza. Incarnare l’intervento di Dio è capire che il piano di Dio non è un destino ma una vocazione e di conseguenza farLo zampillare nella vita di tutti i giorni, «Perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2Cor 4,7). È narrare ciò che il Signore ha fatto per chi crede in Lui (Cfr. Sal 66).
Ester è simile a un fiume d’acqua fresca che tutto feconda, fa fiorire e verdeggiare. «Mardocheo disse: tutte queste cose sono accadute per opera di Dio. Mi ricordo di un sogno: c’era una piccola sorgente che si trasformava in fiume; spuntava una luce, brillava il sole e l’acqua era abbondante. Questo fiume è Ester...! Attraverso lei il Signore ha salvato il suo popolo, ci ha liberati da tutti i mali e ha operato segni e prodigi grandiosi» (dal capitolo 10 del testo greco).
In questa vicenda Ester rivive quanto la Parola di Dio è stata nella sua storia e nella storia del suo popolo accogliendone il monito: «Siate forti nell'osservare ed eseguire quanto è scritto nel libro della legge di Mosè, senza deviare né a destra, né a sinistra, senza mischiarvi con queste nazioni che rimangono fra di voi; non pronunciate neppure il nome dei loro dèi, non ne fate uso nei giuramenti; non li servite e non vi prostrate davanti a loro: ma restate fedeli al Signore vostro Dio, come avete fatto fino ad oggi» (Gs 23,6-8). Infatti, ogni nostra azione, davanti a Dio, supera il tempo e si radica nel cuore dell’eternità e lì parla per noi! (Cfr. Mt 25,31-46).

interrogarsi

1. Hai provato a leggere gli stessi fatti secondo un progetto di cui non riesci forse a capire la trama? Prova a vedere qualche fatto della vita passata che ti ha fatto soffrire e che oggi leggi con occhi diversi.
2. Il dono di Dio ci colma di gioia, ma potrebbe anche sovraccaricarci di responsabilità. Quale fedeltà vivo nel mio cammino di fede? (puoi aiutarti, se vuoi, con il Vangelo secondo Matteo 25,14-30).
3. Quale discernimento nella vita di ogni giorno per amare quanti il Signore fa passare dalla mia vita, “portando i pesi gli uni degli altri”?
4. Con che spirito occupi il tuo posto nella vita? Con gioia, con rassegnazione, con invidia, con frustrazione, con spirito di servizio, in un dialogo d’amore con Dio?
5. Quale “parola ben misurata” (Est 4,17s), cioè “parole opportune ed adeguate”, usiamo nel testimoniare la nostra fede?

Pregare

A tutti i cercatori del tuo volto mostrati, Signore; a tutti i pellegrini dell'assoluto, vieni incontro, Signore; con quanti si mettono in cammino
e non sanno dove andare cammina, Signore; affiancati e cammina con tutti i disperati sulle strade di Emmaus; e non offenderti se essi non sanno che sei tu ad andare con loro, tu che li rendi inquieti e incendi i loro cuori; non sanno che ti portano dentro: con loro fermati poiché si fa sera e la notte è buia e lunga, Signore (David M. Turoldo).

Agire

Trovare momenti di sosta e di riflessione, per rispondere sempre meglio all’opera della redenzione con l’osservanza del comandamento dell’amore.

AMOS


Invocare
O Spirito Santo, anima dell'anima mia, in te solo posso esclamare: Abbà, Padre.
Sei tu, o Spirito di Dio, che mi rendi capace di chiedere e mi suggerisci che cosa chiedere.
O Spirito d'amore, suscita in me il desiderio di camminare con Dio: solo tu lo puoi suscitare.
O Spirito di santità, tu scruti le profondità dell'anima nella quale abiti, e non sopporti in lei
neppure le minime imperfezioni: bruciale in me, tutte, con il fuoco del tuo amore.
O Spirito dolce e soave, orienta sempre più la mia volontà verso la tua, perchè la possa conoscere chiaramente, amare ardentemente e compiere efficacemente. Amen (San Bernardo).

Leggere (Am 1,1.7,14-15)
1,1 Parole di Amos, che era pecoraio di Tekòa, il quale ebbe visioni riguardo a Israele, al tempo di Ozia re della Giudea, e al tempo di Geroboàmo figlio di Ioas, re di Israele, due anni prima del terremoto.
7,14 “Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori; 15 Il Signore mi prese di dietro al bestiame e il Signore mi disse: Và, profetizza al mio popolo Israele.
Amos è uno di quei “profeti” e “veggenti”, dei quali si parla in 2Re 17,13 per tornare, con cuore sincero, a cercare il Signore Dio: «Convertitevi dalle vostre vie malvage e osservate i miei comandi e i miei decreti secondo ogni legge, che io ho imposta ai vostri padri e che ho fatto dire a voi per mezzo dei miei servi, i profeti».
Come Osea, di Amos sono state conservate e tramandate le “parole” (Am 1,1; cfr. Os 1,1), contenute in distinte raccolte, che dagli stessi prendono il nome.
Il motivo centrale e unificante di tutto il libro è quello della giustizia; e per questo il suo messaggio è di straordinaria attualità. Amos critica l’ingiustizia che si cela dietro le apparenze di una rigorosa legalità, biasima la perversione di una religione che si compiace di sontuose pratiche cultuali, mentre dimentica il dovere di provvedere ai poveri e di agire secondo equità.
Amos operò durante il regno di Ozia in Giuda (767-739 a.C.) e di Geroboamo II in Israele (782-753 a.C.). Predica nel regno del nord, Regno di Israele, con capitale Samaria, pur essendo "residente" nel regno del sud, Regno di Giuda, poco distante da Betlemme, a Tekòa (18 Km a sud di Gerusalemme), dove faceva di mestiere il pastore (Am 1, 1.7, 14-15). Il regno di Israele sarebbe caduto per opera dell'Assiria (722 a.C.) solo 30 anni dopo la predicazione di Amos.
Il Testo della nostra riflessione non è proprio un racconto vocazionale, ma una autobiografia di Amos. Egli ci parla del sua esperienza di Dio senza staccare la fede dalla vita. Egli non fa altro che rievocare l’esperienza spirituale che ha inciso profondamente nella sua vita (Cfr. 7,1), e che lo ha trasformato da «pecoraio» (1,1) in «profeta» (7,15).
In questa sua esperienza, all’improvviso, il Signore “tuonò” (Cfr. Sal 29) indicandogli la sua vocazione e quel tuono gli era parso una voce simile a quella di un leone. «Il Signore ruggisce da Sion e da Gerusalemme fa udire la sua voce; sono desolate le steppe dei pastori, è inaridita la cima del Carmelo» (Am 1,2; 3,8. Cfr. anche Is 31,4; Ger 25,30; Gl 4,16). Questo ruggito diviene per lui il simbolo tempestoso che irrompe sulla scena della società del tempo.
Cosa significa? In Am 1,1 viene indicato il sostantivo maschile «tempo». Ciò sta ad indicare un momento basilare, ben preciso, nella vita del profeta ma anche di tutto il popolo, in cui Dio irrompe silenziosamente per dare senso alla nostra esistenza.
In questa irruzione si vive l’esperienza della chiamata divina, che dà l’avvio al ministero. Essa si realizza in una triplice fase: un forte incontro con Dio - dialogo; la missione e la consegna delle parole.
Amos vive di questa esperienza (Cfr. Am 7,15; 3,8; Ger 20,7; Is 6,1-5; Ez 1,28) e si fa “icona” per ognuno di noi in quanto, in qualsiasi circostanza della nostra vita ognuno è chiamato da Dio ad essere “icona” per l’altro. Infatti, la grandezza di ogni persona, per la Bibbia, è nell'essere "tu" che Dio istituisce con il suo Tu e alla cui libertà di risposta egli affida il suo amore che non resta sterile, ma è sempre efficace (Cfr. Is 55,10-11).
Amos non era un profeta (nel senso ristretto del termine) né apparteneva ad alcuna comunità profetica. Il Signore rende Amos un nabi’, cioè un profeta. Dio lo strappa dalla sua gente e dalla sua terra per inviarlo nel regno di Israele, cioè fuori della sua terra e ad altra gente (Cfr. Gen 12,1.4-5).
Per Amos (3,7s) nabì è colui che avendo udito la voce di Dio deve profetare, deve “proclamare la parola” (3,1-8) e che proclamandola energicamente mostra di aver sentito la voce divina (3,3-6). In concreto è colui che viene preso, afferrato da Dio e inviato come portavoce al suo popolo (7,15; cfr. 2Sam 7,8; 1Re 19,19ss; Lc 23,26).
Il popolo di Dio aveva perso il ricordo del grande disegno che presiede alla sua storia, per questo Dio chiama Amos dalla sua normale occupazione di pastore e agricoltore per portare una parola (infatti il nome di Amos in ebraico fa “Jahwe ti ha portato”) che i figli di Israele hanno respinto e farli ritornare alla legge del Signore (Cfr. Am 3,1; 4,1; 3,13).
Il Testo usa per noi tre proposizioni nominali atemporali, dichiarando quello che Amos era e quello che non era prima della chiamata divina (7,14) e rivelandosi come un profeta scomodo, tanto che il sacerdote di Betel, vede nella sua predicazione un pericolo per il re e per la casa di Israele e lo denunzia a Geroboamo (Cfr. 7,10-11).
Anche in Am 7,14, come in altri racconti vocazionali, la vocazione è attribuita a Dio ed è espressa dai verbi “prendere” e “inviare”.
In questi due verbi vi è anzitutto la lieta accoglienza divina (Cfr. Dt 33,3; Ger 9,20). Questo significa che all’origine dell’elezione e della vocazione di Amos, come in altre vocazioni individuali e collettive c’è un atto libero e sovrano di Dio (Cfr. Sof 3,7), che lo ha “preso” e lo ha “mandato” a profetizzare. Inoltre, abbiamo una investitura con un compito concreto e generalmente ben delimitato: il verbo “inviare” (eb. Shaliakh) sta ad indicare una persona autorizzata ad agire a nome di un’altra.
In questi verbi abbiamo un rimando ad un’altra “accoglienza” ed “invio” che riscontriamo nel Nuovo Testamento: «Chi accoglie voi, accoglie me» (Mt 10,40). Il discepolo rappresenta Gesù e il suo messaggio. Ciò significa: chi è chiamato a continuare la missione di Gesù e viene accolto, accoglie Gesù e Dio stesso.
Ma Cristo si incontra solo nei suoi messaggeri? Egli si presenta a tutti nelle più misere e bisognose vesti: «Chi accoglie in nome mio uno di questi piccoli, accoglie me» (Mc 9,37).
Nell’immagine del piccolo è racchiusa l’accoglienza, l’amore e il rispetto assoluto perché è il bisogno di ognuno per essere felice (Cfr. Am 7,2-3.5-6). A sua volta, Dio si fa accoglienza donata e ricevuta, amore reciproco. Gesù si identifica col piccolo perché è l’ultimo e servo di tutti (Mc 9,35; Mt 20,26; 23,11; Mc 10,44; 1Cor 9,19).
Dio manda il suo profeta - Amos - in mezzo al popolo, manda ciascuno di noi per essere ultimo e servo di tutti, per accoglierLo nella realtà della vita quotidiana. Accogliere Lui è entrare nella propria verità; è realizzarsi e vivere.
In questo “mandare”, essere “presi” vi è racchiuso un mandato reciproco che invita a farsi “piccolo”. Essere piccoli, significa essere discepoli perennemente smentiti nella propria fede, smentiti non solo dal mondo, ma dalla propria comunità, anche da quelli che pretendono di essere nostri maestri (Cfr. Mc 3,20-21.31-35).
È una ricerca di Dio che si fa solidarietà, voce di quanti soffrono e sono perseguitati e umiliati.
Essere profeti per Amos è credere in Dio e credere ancora nell’uomo. Per questo lo vediamo scuotere le coscienze addormentate e intiepidite dei contemporanei. Infatti, “È inutile rimanere sempre davanti all’immagine del Dio prediletto ed agitare lampade rituali; è possibile invece, ed è più giusto, agitare sempre davanti al nome del proprio Dio la lampada ardente del proprio amore” (Tukaram).
La sua testimonianza per ciascuno di noi è monito non solo per ricercare Dio, ma impegno effettivo di trasformare il mondo per renderlo più umano e più vivibile, cercando di essere solidali con tutti. Questo è possibile perché il fiume della storia non va verso il baratro, ma verso un estuario di pace (9,11-15).

interrogarsi
1. Quale irruzione di Dio nella tua vita?
2. La mia fede ha incisività nella vita quotidiana? E quale incisività ha la mia vita, con i suoi problemi e i suoi successi, nel mio cammino di fede?
3. Ci lasciamo interpellare dalla Voce di Dio, per portare la Sua parola ai nostri contemporanei?
4. Credere in Dio significa anche credere nell’uomo: so dare fiducia agli altri? Riesco a cogliere anche i loro aspetti positivi?
5. Riesco a vivere la vita come un tutt’uno, senza fratture tra fede e vita…. Quali difficoltà incontro?

Pregare
Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: 
egli annunzia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli.

La sua salvezza è vicina a chi lo teme 
e la sua gloria abiterà la nostra terra.

Misericordia e verità s'incontreranno, 
giustizia e pace si baceranno.
La verità germoglierà dalla terra 
e la giustizia si affaccerà dal cielo.

Quando il Signore elargirà il suo bene, 
la nostra terra darà il suo frutto.
Davanti a lui camminerà la giustizia 
e sulla via dei suoi passi la salvezza (dal Sal 84).

Agire
In un'epoca come la nostra, caratterizzata da profonde tensioni sociali, il richiamo del profeta Amos "Preparati o Israele a incontrare il tuo Dio" risulta non solo attuale ma anche opportuno, per vivere ogni giorno questa Parola di salvezza all’insegna della solidarietà.

LA DONNA PERFETTA

Invocare
Ti scongiuro, Padre, prendi compassione del mio affetto, manda Gesù a me, sì che egli non mi parli più per mezzo dei suoi servi, angeli e profeti, ma venga proprio lui e mi baci con i baci della sua bocca, cioè infonda nella mia bocca le parole dalla sua bocca ed io lo ascolti parlare e lo veda insegnare (Origene).

Leggere (Pr 31,10-31)
1, 10 Una donna perfetta chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore. 11 In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto. 12 Essa gli dá felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita. 13 Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani. 14 Ella è simile alle navi di un mercante, fa venire da lontano le provviste. 15 Si alza quando ancora è notte e prepara il cibo alla sua famiglia e dá ordini alle sue domestiche. 16 Pensa ad un campo e lo compra e con il frutto delle sue mani pianta una vigna. 17 Si cinge con energia i fianchi e spiega la forza delle sue braccia. 18 È soddisfatta, perché il suo traffico va bene, neppure di notte si spegne la sua lucerna. 19 Stende la sua mano alla conocchia e mena il fuso con le dita. 20 Apre le sue mani al misero, stende la mano al povero. 21 Non teme la neve per la sua famiglia, perché tutti i suoi di casa hanno doppia veste. 22 Si fa delle coperte, di lino e di porpora sono le sue vesti. 23 Suo marito è stimato alle porte della città dove siede con gli anziani del paese. 24 Confeziona tele di lino e le vende e fornisce cinture al mercante. 25 Forza e decoro sono il suo vestito e se la ride dell’avvenire. 26 Apre la bocca con saggezza e sulla sua lingua c’è dottrina di bontà. 27 Sorveglia l’andamento della casa; il pane che mangia non è frutto di pigrizia. 28 I suoi figli sorgono a proclamarla beata e suo marito a farne l’elogio: 29 “Molte figlie hanno compiuto cose eccellenti, ma tu le hai superate tutte! ”. 30 Fallace è la grazia e vana è la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare. 31 Datele del frutto delle sue mani e le sue stesse opere la lodino alle porte della città.


In questo capitolo del Libro dei Proverbi, con un poema alfabetico, viene tratteggiato il profilo di una donna laboriosa, di valore, forte, eccellente, perfetta. Qui gli aggettivi sono tanti, ma le doti di questa donna non hanno paragone (cfr. v. 29).
Qoèlet a riguardo scrive: «Un uomo su mille l’ho trovato: ma una donna fra tutte non l’ho trovata» (Qo 7,28).
Chiediamoci: Chi sarà mai, questa donna perfetta da trovare? Sembra sentire fin dal primo versetto, l’eco del profeta che risuona con questo invito: «Cercate il Signore mentre si fa trovare» (Is 55,6).
Il Libro dei Proverbi è un Testo didattico-sapienziale, perché il suo insegnamento si concentra specificamente sulla “sapienza”; la hokmah.
Davanti ad Essa, troviamo l’atteggiamento da assumere per questa lectio: mettersi in disparte, nel silenzio, per tirare fuori dalle tenebre del passato i gesti, le tenerezze di Dio compiuti nel passato stesso, perché «La fonte della sapienza è un torrente che straripa» (Pr 18,4). È la stessa Parola di Dio che “come l’albero della vita si offre a voi nel deserto, che offre a voi frutti benedetti da ogni parte. È come la pietra che era percossa nel deserto, che diventò una bevanda spirituale per tutti da ogni parte: Mangiarono il cibo dello Spirito e bevvero la bevanda dello Spirito” (Sant’Efrem; cfr. anche Ger 2,7).
La Parola è un cibo che ci viene donato nella misura in cui ascoltiamo (Cfr. Sal 81,9-17) e senza ascolto, non c’è Parola (Cfr. Am 8,11-13).
Allora dobbiamo identificare questa “donna” con la Sapienza, perché Ella stessa “Sale dal deserto colma di delizie?” (San Gregorio Magno; vedi Ct 8,5).
«La sapienza si prende cura di quanti la cercano» (Sir 4,11s; v. 27). Si rivolge a tutti i suoi ascoltatori esortandoli, rimproverandoli e rassicurandoli: «Chi ascolta me vivrà tranquillo e sicuro dal timore del male» (Pr 1,32; cfr. 8, 34).
In questa lectio non abbiamo un personaggio femminile o maschile, in quanto tutti siamo «Uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28) e questo perché la Sapienza è Cristo stesso «Potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1,24). “Tutta la divina scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, perché tutta la scrittura parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento” (Ugo di san Vittore).
Fin dal primo versetto del brano, tutto ciò che è detto della donna perfetta è da riferire a Cristo Gesù. Egli, infatti è la perla di inestimabile valore per la quale vale la pena disfarsi di ogni cosa (Cfr. Mt 13,45-46) e chi la trova «non verrà a mancargli il profitto» (v. 11; cfr. Mt 13,44).
La Parola di Dio - Gesù – è la perfetta padrona di casa, che come una luce illumina la nostra casa a giorno, sì da renderci conto di ciò che più conta nella vita e di ciò per cui non vale la pena perdere fiato (Lc 10,42).
La Sapienza è un continuo “accendere la lampada” e “spazzare la casa” per ritrovare se stessi dove vi è l’immagine di Dio, quella stessa immagine posta fin dal principio (Cfr. Gen 1,26).
Questa luce vuole essere modello della nostra vita, diventare Parola nella vita di ogni giorno ed è la Parola stessa del Padre, l’esegeta del Figlio, che ci indica “la donna perfetta”: «E dalla nube venne una voce che diceva: questi è il mio Figlio, l’Eletto: ascoltatelo» (Lc 9,35). È la voce dell’Amore, è il sentire che Qualcuno ci ama, è un accendersi una luce nella nostra vita (Cfr. Sap 7,22-8,16). «Ciò avverrà, se ascolterete la voce del Signore» (Zac 6,15).
Della donna viene detto «In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto. Essa gli dá felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita» (vv. 11-12), così possiamo dire di Cristo Gesù nel quale noi, sua sposa, confidiamo: infatti, «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunchè di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5,25-27).
Nella descrizione di questa donna perfetta vediamo che ella non conosce l’ozio e Cristo dice: «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» (Gv 5,17) e «Ciò che avete ascoltato in me, è quello che dovete fare» (Fil 4,9).
È il cammino vocazionale che trasforma il nostro cuore caldo di fiducia verso Gesù che ci fa stare «Dietro il nostro muro; guarda dalla finestra, spia attraverso le inferriate» (Ct 2,9)
La donna perfetta, sulle orme di Cristo Gesù è colei che trascorre tutta la sua vita a cercare l’amato.
La presenza dell’amato coincide con la primavera: è la risurrezione, è l’amore che fa fiorire la vita e il mondo (Cfr. Gv 5,24). È un continuo ritorno dall’esilio per comunicare la “Buona Notizia” appresa inizialmente dalle pagine della Scrittura (Cfr. Dt 4,29; 12,5).
L’esempio vocazionale che troviamo nei vari gesti del brano biblico è dinamica; è quello di una fede alla “contemporaneità”.
Cristo Gesù – la donna – testimonia il suo essere dal Padre e ci guarda con attenzione (v. 27). Ciò che viene richiesto, affinché la nostra fede sia autentica, è che il soggetto credente venga a contatto con una realtà umana, visibile, storicamente identificabile e che veicoli l’intero avvenimento della rivelazione, rendendolo presente con la propria vita.
Ognuno di noi è stato creato per incontrare Cristo Gesù, per seguirlo ed immedesimarsi con lui, essere a lui assimilato. Questo incontro, attraverso il dono dello Spirito, fornisce una missione assolutamente personale e irripetibile.
Ciascuno è chiamato a vivere la propria esistenza come un dono e secondo il dono che ha ricevuto. A ciascuno è data una missione particolare in cui esprimere e ritrovare se stesso in profonda unità con Cristo e con i contemporanei (1Cor 12,4-7).
In questa maniera la vita di tutti, nella docilità all’azione dello Spirito Santo, è chiamata anche a narrare qualcosa della vita intima di Dio che creando l’uomo in Cristo ed in vista di Lui (Col 1,16; Ef 1,10), ha voluto comunicare se stesso, la sua vita, il suo amore e la sua eterna gioia (Cfr. Gv 3,29).

Interrogarsi
1. Nel mio cammino vocazionale il cuore è riposto in Gesù?
2. Come “lavoro” la Parola di Dio per poterla trasmettere ai contemporanei?
3. Sorveglio l’ “andamento della casa”? Narro qualcosa della vita intima di Dio?
4. Sono convinta/o che la mia vita è un dono e che ogni vita è vocazione?

Pregare
L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre” (Lc 1,47-55).

Agire
Anche tu, come la donna perfetta, ama quello a cui sei chiamata/o ad essere.

GEDEONE

Invocare
O Spirito Santo, sei tu che unisci la mia anima a Dio: muovila con ardenti desideri e accendila con il fuoco del tuo amore. Quanto sei buono con me, o Spirito Santo di Dio: sii per sempre lodato e Benedetto per il grande amore che affondi su di me! Dio mio e mio Creatore è mai possibile che vi sia qualcuno che non ti ami? Per tanto tempo non ti ho amato! Perdonami, Signore.
O Spirito Santo, concedi all'anima mia di essere tutta di Dio e di servirlo senza alcun interesse personale, ma solo perché è Padre mio e mi ama. Mio Dio e mio tutto, c'è forse qualche altra cosa che io possa desiderare? Tu solo mi basti. AMEN (Santa Teresa d’Avila).

Leggere (Gdc 6,11-24)
6, 11 Ora l’angelo del Signore venne a sedere sotto il terebinto di Ofra, che apparteneva a Ioas, Abiezerita; Gedeone, figlio di Ioas, batteva il grano nel tino per sottrarlo ai Madianiti. 12 L’angelo del Signore gli apparve e gli disse: “Il Signore è con te, uomo forte e valoroso! ”. 13 Gedeone gli rispose: “Signor mio, se il Signore è con noi, perché ci è capitato tutto questo? Dove sono tutti i suoi prodigi che i nostri padri ci hanno narrato, dicendo: Il Signore non ci ha fatto forse uscire dall’Egitto? Ma ora il Signore ci ha abbandonati e ci ha messi nelle mani di Madian”. 14 Allora il Signore si volse a lui e gli disse: “Và con questa tua forza e salva Israele dalla mano di Madian; non ti mando forse io? ”. 15 Gli rispose: “Signor mio, come salverò Israele? Ecco, la mia famiglia è la più povera di Manàsse e io sono il più piccolo nella casa di mio padre”. 16 Il Signore gli disse: “Io sarò con te e tu sconfiggerai i Madianiti come se fossero un uomo solo”. 17 Gli disse allora: “Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, dammi un segno che proprio tu mi parli. 18 Intanto, non te ne andare di qui prima che io torni da te e porti la mia offerta da presentarti”. Rispose: “Resterò finché tu torni”. 19 Allora Gedeone entrò in casa, preparò un capretto e con un’ efa di farina preparò focacce azzime; mise la carne in un canestro, il brodo in una pentola, gli portò tutto sotto il terebinto e glielo offrì. 20 L’angelo di Dio gli disse: “Prendi la carne e le focacce azzime, mettile su questa pietra e versavi il brodo”. Egli fece così. 21 Allora l’angelo del Signore stese l’estremità del bastone che aveva in mano e toccò la carne e le focacce azzime; salì dalla roccia un fuoco che consumò la carne e le focacce azzime e l’angelo del Signore scomparve dai suoi occhi. 22 Gedeone vide che era l’angelo del Signore e disse: “Signore, ho dunque visto l’angelo del Signore faccia a faccia! ”. 23 Il Signore gli disse: “La pace sia con te, non temere, non morirai! ”. 24 Allora Gedeone costruì in quel luogo un altare al Signore e lo chiamò Signore- Pace. Esso esiste fino ad oggi a Ofra degli Abiezeriti.





Nella vocazione di Gedeone, si manifesta il modo apparentemente strano con cui Dio sceglie i suoi “strumenti” per intervenire nella storia del suo popolo.
Come in altre vocazioni, che abbiamo già visto, anche per Gedeone l’annunzio è introdotto da una manifestazione divina.
Nei primi due versetti del nostro brano abbiamo due verbi che ci indicano una teofania: “venne” e “apparve”. Sono due verbi che raccontano una storia, qualcosa che è avvenuto una volta e per sempre, e avviene sempre ogni volta che si ascolta.
Chi viene e si siede sotto il terebinto non è uno dei tanti messaggeri di cui la Bibbia parla, ma Dio in persona (Cfr. Gen 16,7.10; 22,11; Is 3,6).
Nel testo, l’angelo del Signore (vv. 11.12.20.21.22) si identifica con Dio stesso, il quale appare a Gedeone in forma visibile, cammina cioè sulla sua strada, si siede accanto a lui, manifesta di conoscerlo e gli parla familiarmente come ad un amico: «Allora il Signore si volse a lui e gli disse… Il Signore gli disse» (vv. 14.16.22.23.24).
L’autore presenta un Dio che cammina, che siede, che appare e che parla, cioè che si manifesta familiarmente a Gedeone, figlio di Ioas, Abiezerita (v. 11) come fece con i progenitori in Eden (Gen 3,8) e con Abramo in Mamre (Gen 18,1.4).
Abbiamo di questa manifestazione divina un richiamo in Es 2,13-25, quando il Signore aveva prestato ascolto al grido del popolo oppresso in terra di Egitto dal Faraone e se ne prese cura chiamando e inviando Mosè (Es 3), così adesso presta ascolto al grido di Israele oppresso dai Madianiti chiamando e inviando Gedeone come liberatore e salvatore.
Dio si presenta a Gedeone mentre sta battendo il grano di nascosto per sottrarlo alla razzia dei Madianiti, come un viandante qualsiasi in cerca di un momento di riposo all’ombra di un albero. Questo modo di presentare il Signore che viene e che si siede sotto un albero (cfr. Gen 18,1-4) esprime familiarità e vicinanza. Ciò che vuole dirci l’autore è che Dio è vicino all’umanità e alla sua storia e che, nonostante il peccato, come già in Eden (Gen 3,8), egli continua a camminare sulla terra a fianco dell’uomo per offrire allo stesso la sua alleanza e tornare a conversare familiarmente con colui che ha creato e voluto a sua immagine e somiglianza.
All’introduzione della manifestazione segue il saluto (v. 12). Tale saluto si compone di due elementi: l’augurio “il Signore è con te”, un’espressione tipica che ritroviamo tutte le volte che Dio chiama e invia qualcuno per una missione particolare e importante (Cfr. Gen 26,3; 31,3; Es 3,12; Dt, 31,23; 1Sam 10,7; Ger 1,8) e l’appellativo “prode guerriero”.
Il primo elemento più che un augurio (Cfr. Rt 2,4) esprime una realtà. Se Dio è con Gedeone ed è presente a lui è una persona da lui assistita e protetta. La presenza divina, indicata nella formula augurale, è percepita da Gedeone come garanzia di protezione divina, rapportata e proporzionata alla difficoltà del momento e della sua stessa missione.
Gedeone non è chiamato da Dio col nome di famiglia, ma con l’appellativo “prode guerriero” (gribbor hehajil). Si tratta di un nome profetico di investitura, capace di esprimere il ruolo attivo che lo stesso Gedeone, per volere di Dio e col suo aiuto, è chiamato a svolgere nel quadro della storia della salvezza.
Come “prode guerriero”, egli è stato eletto è chiamato da Dio a operare la liberazione della sua tribù dall’oppressione dei Madianiti.
All’interno della chiamata divina, abbiamo da parte di Gedeone due obiezioni. La prima mette in questione la stessa affermazione del saluto stabilendo un confronto tra il presente colmo di miseria e un passato glorioso (cfr. v. 13). La seconda, paragonabile a quella di Mosè (Es 2,11; 4,10) o ad alcuni profeti (Cfr. Ger 1,6) anche con motivazioni diverse, riguarda lo stesso Gedeone.
Gedeone non è un personaggio di grande rilievo, lui stesso lo fa notare al Signore che lo chiama: "Signore mio, come salverò Israele? Ecco, la mia famiglia è la più povera di Manasse, e io sono il più piccolo nella casa di mio padre" (v. 15. Cfr. Ger 1,6; 1Sam 16,7; Es 4,10).
Come mai il Signore sceglie uno strumento così debole, così disprezzabile, dalla famiglia più povera e, in questa famiglia, il più piccolo?
Le due obiezioni mettono in risalto la natura delle relazioni tra Dio e il suo popolo Israele. Mentre Dio dice a Gedeone: “il Signore è con te” (v. 12), Gedeone, facendosi portavoce del popolo e solidale con lo stesso, mette in discussione l’essere di Dio con Israele (v. 13), ma è stato Israele ad abbandonare Dio e non Dio (Cfr. Gdc 6,10).
Anche la missione di Gedeone, è formulata in due tempi: «Allora il Signore si volse a lui e gli disse: “Và (imperativo) con questa tua forza e salva Israele dalla mano di Madian; non ti mando forse io?”… Il Signore gli disse: “Io sarò con te e tu sconfiggerai i Madianiti come se fossero un uomo solo”» (vv. 14.16).
La missione di Gedeone, come quella di Mosè e dei profeti Isaia e Geremia, è espressa con un verbo tecnico: inviare, mandare (salah), che indica sia il compito specifico conferito da Dio ai suoi inviati, sia il rapporto stretto che intercorre tra l’inviato e colui che invia che rende partecipe della stessa autorità (cfr. v. 14). Qualificato col nome profetico “prode guerriero”, Gedeone riceve da Dio il mandato di salvare (jasa) Israele dall’oppressione di Madian.
In questo mandato, Dio offre a Gedeone una duplice garanzia: la prima consiste nella constatazione della stessa forza fisica: “con questa tua forza” (v. 14); la seconda, nella promessa della protezione divina: “il Signore è con te” (v. 16); una promessa che riecheggia ed è formulata negli stessi termini in Es 3,12.
Anche qui, come nella vocazione di Mosè vi è la richiesta di un segno. Solo che in Mosè è Dio stesso ad offrire il segno, mentre in Gedeone è lo stesso Gedeone che, con tanta familiarità e rispetto, si rivolge a Dio per chiedergli un segno (v. 17), capace di attestare l’autenticità della teofania e della missione. Dio offre a Gedeone come segno concreto della sua inequivocabile presenza lo sprigionarsi miracoloso di un fuoco divorante, che trasforma il pranzo che Gedeone ha preparato (vv. 18-19) in olocausto gradito a Dio (cfr. Gdc 13,15-20).
Dio si impegna con Gedeone, come fece con Mosè, per tutto ciò che farà nell’espletamento del suo compito nel mediare la salvezza.

Interrogarsi
1. A quale tipo di oppressione il Signore mi chiama, oggi?
2. Sono pronto a rispondere a Dio che mi chiama, oppure chiedo “segni” o faccio obiezioni prima del “sì”?
3. Il “non temere” si ripete sempre nella nostra vita. Accolgo l’invito della Parola di Dio per viverla e testimoniarla con coraggio?
4. Come mi impegno, nella vita di ogni giorno, a mediare la salvezza?

Pregare
Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria,
per la tua fedeltà, per la tua grazia. Perché i popoli dovrebbero dire:
“Dov’è il loro Dio? ”. Il nostro Dio è nei cieli, egli opera tutto ciò che vuole.
Gli idoli delle genti sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo.
Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono,
hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano.
Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano;
dalla gola non emettono suoni. Sia come loro chi li fabbrica
e chiunque in essi confida. Israele confida nel Signore:
egli è loro aiuto e loro scudo. Confida nel Signore la casa di Aronne:
egli è loro aiuto e loro scudo. Confida nel Signore, chiunque lo teme:
egli è loro aiuto e loro scudo. Il Signore si ricorda di noi, ci benedice:
benedice la casa d’Israele, benedice la casa di Aronne.
Il Signore benedice quelli che lo temono, benedice i piccoli e i grandi.
Vi renda fecondi il Signore, voi e i vostri figli.
Siate benedetti dal Signore che ha fatto cielo e terra.
I cieli sono i cieli del Signore, ma ha dato la terra ai figli dell’uomo.
Non i morti lodano il Signore, né quanti scendono nella tomba.
Ma noi, i viventi, benediciamo il Signore ora e sempre (Sal 115 [113B]).

Agire
Orientare ogni giorno la nostra vita secondo l’invito della Parola di Dio: “Tutto posso in Colui che mi dà la forza” (Fil 4,13).

LA SPOSA

Invocare

O Spirito di Gesù Cristo, prendi quel che è suo e dammelo, affinché diventi mio. Fa’ splendere in me la tua luce affinché riconosca la tua verità. Vincola il mio cuore alla fedeltà del credere affinché non mi allontani da essa. E insegnami ad amare perché, senza amore, la verità è morta. Persuasimi dell’amore di Dio e dammi la forza di riamarlo, affinché io rimanga in Lui ed egli in me. O Santo Spirito, che conduci la creazione nuova in un mondo invecchiato, riempimi della convinzione della tua divina potenza (Romano Guardini).

Leggere (Ct 5,2-8)
5, 2 Io dormo, ma il mio cuore veglia. Un rumore! È il mio diletto che bussa: “Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, perfetta mia; perché il mio capo è bagnato di rugiada, i miei riccioli di gocce notturne”. 3 “Mi sono tolta la veste; come indossarla ancora? Mi sono lavata i piedi; come ancora sporcarli? ”. 4 Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio e un fremito mi ha sconvolta. 5 Mi sono alzata per aprire al mio diletto e le mie mani stillavano mirra, fluiva mirra dalle mie dita sulla maniglia del chiavistello. 6 Ho aperto allora al mio diletto, ma il mio diletto già se n’era andato, era scomparso. Io venni meno, per la sua scomparsa. L’ho cercato, ma non l’ho trovato, l’ho chiamato, ma non m’ha risposto. 7 Mi han trovata le guardie che perlustrano la città; mi han percosso, mi hanno ferito, mi han tolto il mantello le guardie delle mura. 8 Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se trovate il mio diletto, che cosa gli racconterete? Che sono malata d’amore!


Introduciamo brevemente questa nostra lectio, con una presentazione del Libro del Cantico dei Cantici. Il titolo del libro è una forma di superlativo ebraico come a dire: il Cantico sublime.
Rabbi 'Akìva affermava: “Il mondo intero non è tanto prezioso quanto il giorno in cui fu dato a Israele il Cantico dei Cantici, perché tutti gli Scritti sono sacri ma il Cantico dei Cantici è il sacro per eccellenza” (Mishnà Yadayìm 3,5).
Si tratta di un testo per più ragioni singolare nella Bibbia. È un poema lirico o forse una raccolta di poemi, che nel suo senso ovvio canta l'amore di due giovani, a volte con un'arditezza di linguaggio che sconcerta chi non conosce i modi di esprimersi degli Orientali.
Il bellissimo poema è attribuito a Salomone (cfr. 1Re 5,12); sebbene ciò non sia del tutto impossibile, si pensa che l'attribuzione sia dovuta ad un artificio letterario e che l'autore sia piuttosto un ignoto poeta che scriveva tra il sec VI e IV a.C., forse utilizzando materiale molto antico che potrebbe risalire ai tempi di Salomone. È un poema tempestato di simboli, percorso dalla gioia dell’amore ove, al centro di tutto, ci sono Lui e Lei, l’uomo e la donna, accompagnati da un Coro.
Questo bellissimo Libro è stato definito dal teologo protestante K. Barth, “La Magna Charta dell’umanità”. È un messaggio a quanti che attraverso l’amore incontrano l’uomo e il Dio dell’amore.
Il Cantico dei Cantici nel corso dei secoli è stato presentato sempre con varie interpretazioni, rabbì Saadia affermava: “Sappi, figlio mio, che troverai grandi differenze nell’interpretazione del Ct”. E Lutero osservava che “Omnis locus Scripturae est infinitae intelligentiae”.
Siccome la Sacra Scrittura, in particolare il Cantico dei Cantici, è come una serratura con molteplici chiavi, in questa lectio mensile, proveremo ad usarne una.
L’amore di cui si parla nel nostro brano e in tutto il poema, è fieramente umano, ma quest’amore ha in sé un seme divino, che è il paradigma per la conoscenza del “Dio che è amore” (1Gv 4,8.16). Per questo nel versetto 2, vi è una vicenda lineare ed aperta: “Io dormiente, ma il mio cuore vegliante”.
È notte e la donna sta dormendo. È la notte che ogni anima attraversa per poi fare l’incontro. Direbbe Giovanni della Croce: “è un influsso di Dio nell’anima che la purifica dalle sue ignoranze e imperfezioni abituali, naturali e spirituali… mediante la quale Dio ammaestra e istruisce l’anima in perfezione di amore” (Notte Oscura, II, 5,1).
La sposa non poteva riposare perché il cuore era inquieto, “Da una parte infatti, come creatura, sperimenta in mille modi i suoi limiti; d'altra parte sente di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore” (Gaudium et spes, 10): affamato d’amore (cfr. Gv 3,2). Il suo sonno è disturbato dal ritorno di Dio accanto alla sua creatura: “Dio però ritornò sulla terra il giorno in cui fu donato il Cantico dei cantici ad Israele” (Zohar Terumà 143-144a).
In questa inquietudine e desiderio dell’anima, Cristo è presente con la sua acqua viva; Cristo continua a chiamare e far sentire la sua voce piena di promesse e di speranze (Cfr. Gv 4,26): “Aprimi, mia sorella, amata mia, mia colomba perfetta”.
Il versetto 2 rievoca quanto l’apostolo Giovanni scrive: «Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui e cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).
L’amato che si fa perenne desiderio nella vita di ogni giorno, viene descritto come colui che viene dalla fredda notte orientale ed il suo capo è tutto impregnato di rugiada, come avvenne un giorno al vello di lana che Gedeone mise sull’aia (Cfr. Gdc 6,37-40), perché «Di notte il suo canto è con me» (Sal 42,9).
In realtà in questa inquietudine vi è un segno dell’amore, come l’amore di una sentinella attenta e vigilante ad ogni piccolo segno (Cfr. Ez 3,16).
Essere attenti ad ogni piccolo segno, porta il chiamato (la sposa) a spogliarsi di quanto possiede (v. 3. Cfr. Fil 2,6-7) per vivere dell’unico amore. Questa spogliazione è un rischiare un nuovo esodo della Parola che circoncide il cuore (Cfr. Dt 30,6; Eb 4,13). Tanto è vero che il versetto successivo nella traduzione ebraica è pieno d’amore e di gioia: “Le mie viscere si sono commosse per lui” (vedi la traduzione della “Nuovissima versione”).
Come in ogni pagina biblica, in questo versetto è particolarmente tratteggiata una connotazione femminile: avere viscere materne (in ebraico, “Rahamim”. È un attributo “viscerale” applicato a Dio).
Nella Bibbia le viscere materne sono il segno di un affetto totale, istintivo, illimitato (Ger 4,19; 31,20; Is 16,11; 49,15). Per la Bibbia anche Dio ha viscere materne di bontà e di misericordia.
Nel Vangelo di Giovanni, quando Gesù sta nell'Ultima Cena, (Gv 13,23) vi è scritto: «Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, era seduto a fianco di Gesù». La traduzione letterale dal greco, facendo uso del linguaggio biblico, usa un’immagine dicendo: “Era nell'utero di Gesù”.
Usando queste espressioni, la lingua della Bibbia sente il bisogno di richiamare all'amore che ha una donna, l'amore di una mamma che ti porta nel grembo. Allora, se noi “siamo nel grembo di Gesù”, se noi “siamo nel grembo di Dio” e siamo amati così visceralmente, ci scopriamo non più soli, scopriamo di appartenere al popolo degli amati. Di conseguenza la chiamata si volge ad una continua ricerca disperata di Dio che ci raggiunge, ci conquista e sparisce (v. 6; cfr. Ger 20,7).
Lo stesso Paolo dichiara: «Anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo» (Fil 3,12), e ora «sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39). Questo perché ogni innamorato non solo riconosce il profumo del suo partner, ma, appena lo percepisce, si commuove perché è come se avesse davanti a sé il suo amore in persona. Così è per quanti s’innamorano di Cristo Gesù. Ognuno è chiamato a diffondere il profumo della conoscenza di Cristo nel mondo intero (2Cor 2,14).
Questo profumo è analogo al sale e alla luce adoperata da Gesù (Cfr. Mt 5,13-16), anche se di tanto in tanto ci si ritrova con un’amara sorpresa (cfr. v. 6), Dio ci riempie dello spirito di sapienza e d’intelligenza (Cfr. Is 11,2), per eseguire le grandi opere d’arte del profumiere (Cfr. Es 30,23-25; 31,1-11; 37,29).
È la vocazione d’ogni cristiano che si alimenta quando il tutto si fa incontro. Dio continuerà a manifestarsi apparendo e scomparendo, ma per suscitare nella sposa il desiderio di lui e ogni volta che riappare per scomparire, cresce l’amore, la conoscenza, la comunione con Dio, ma anche verso i fratelli e le sorelle. Infatti, “Più l'incontro con Cristo è profondo, chiaro, irrinunciabile, più il cristiano sa vedere i segni della sua attesa nel mondo, le tracce della sua presenza e della sua azione, i punti dell'incontro” (CEI, L’amore di Cristo ci sospinge, 1). L’amore, vissuto nella reciprocità è l’esperienza più bella che ogni uomo e ogni donna possa vivere: “Celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani”, scriveva Ugo Foscolo.
È davvero grande questo dono: conoscerlo, entrare nel profondo della santità di Dio, che è la vita di Dio, in tutta la sua dimensione. Non solo conoscerlo ma partecipare a ciò che Lui è (Cfr. 1Gv 3,2).
L'evangelista Giovanni quando parla di Gesù, lo definisce PAROLA. Una parola che non può mai essere rumore senza contenuto; o vuoto di verità e d’amore, è sempre amore, verità, conoscenza: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1,1-4).
Sull’esempio della sposa, c’è qualcosa che va al di là dell’esteriorità, dal quel rumore ascoltato (v. 2); chi è chiamato a vivere dello Sposo (di Cristo) non può fermarsi all’esteriorità, non può attingere in «Cisterne screpolate che non tengono l’acqua» (Ger 2,13), ma deve andare oltre.
Vi è nel brano un’anagogia della Parola. “In Essa infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28; 1Ts 5,10) “e beato colui nel quale lui è, che per lui vive, che in lui si muove” (San Bernardo).
È il fuoco dell’amore che urge nella sposa, che si è fatto «Sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14). Questo fuoco in ogni vocazione si fa immolazione per il Vangelo (2Tm 2,9: “Ma la parola di Dio non è incatenata”), perché “malata d’amore” (v. 8), come se la sua fosse una testimonianza della sua stessa fragilità, in cui trova la sua forza: «la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,9-10. Cfr. Ct 8,6).
La sposa ammette che è l’amore di Cristo a spingerla (Cfr. 2Cor 5,14) e affermare: «Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!» (1Cor 9,16).
È un credere all’amore di Dio (Cfr. 1Gv 3,16) “così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Benedetto XVI).

Interrogarsi
1. Nella continuità dei miei alti e bassi, gioie e dolori, cose capite e non capite, quale dialogo d’amore tra me e Dio?
2. Quale anagogia della Parola nella mia vita? Mi fermo all’esteriorità oppure vado oltre?
3. Mi lascio conquistare da Cristo perché possa a sua volta portare il suo profumo a tutti?

Pregare
Nella “notte” del presente ti attendiamo, Signore. Aiutaci ad essere vigili e pronti. Nell’ora della gioia non dimentichiamo che tu sei il nostro Salvatore. Aiutaci a essere riconoscenti al tuo dono di amore. Nel tempo del dolore non ci allontaniamo da te. Aiutaci a esserti sempre fedeli, impegnati ogni giorno in attesa del tuo ritorno (Madì Drello).

Agire
Anziché chiudere orecchie ed occhi, mettiti ogni giorno in ascolto della Parola di Dio, per esporti al vento scomodante dello Spirito.

GIOSUÈ

invocare
Spirito di Dio, iniziativa dell’amore, stupore del vivere, silenzio indicibile in cui la vita e l’amore si confondono. Tu vieni a turbarci, vento dello Spirito. Tu sei l’altro che è in noi. Tu sei il soffio che anima e sempre scompare. Tu sei il fuoco che brucia per illuminare. Attraverso i secoli e le moltitudini tu corri come un sorriso per far impallidire le pretese degli uomini. Poiché tu sei l’invisibile testimone del domani, di tutti i domani. Tu sei povero come l’Amore, per questo ami radunare per creare. Oh, brezza e tempesta di Dio! (David Maria Turoldo).

leggere (Nm 27,18-20)
27, 18 Il Signore disse a Mosè: “Prenditi Giosuè, figlio di Nun, uomo in cui è lo spirito; porrai la mano su di lui, 19 lo farai comparire davanti al sacerdote Eleazaro e davanti a tutta la comunità, gli darai i tuoi ordini in loro presenza 20 e lo farai partecipe della tua autorità, perché tutta la comunità degli Israeliti gli obbedisca.


Giosuè, figlio di Nun, appartenente alla tribù di Efraim, il secondo figlio di Giuseppe, visse nel XII secolo a.C. e fin da adolescente fu messo al servizio di Mosè (cfr. Nm 11,28).
Originariamente si chiamava Osea, ma Mosè, del quale era uno dei più fedeli discepoli e al quale succedette nella guida del popolo ebraico, trasformò il suo nome in Giosuè, che significa “Jahvé salva” (cfr. Nm 13,6.16).
Nel leggere in queste poche righe della lectio la vocazione di Giosuè, a differenza delle altre vocazioni bibliche, manca qui un intervento diretto da parte di Dio. Infatti, si attua tramite un mediatore: Mosé.
Anche nel NT, nel Vangelo di Giovanni, leggiamo qualcosa di simile: «Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa, c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli chiesero: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù» (Gv 12,20-22).
L’incontro con il Signore Gesù non può essere un’improvvisazione individuale, un “affare privato”: può essere celebrato e vissuto soltanto grazie alla mediazione della comunità (Andrea e Filippo) che mette a contatto con il Signore.
Anche Mosè a suo tempo chiese a Dio che vi fosse un capo nel popolo di Israele, perché la comunità «Non sia un gregge senza pastore» (Nm 27,17).
Negli eventi biblici, il Signore tocca il cuore di qualcuno perché fosse pastore e guida del suo gregge in suo nome e secondo il suo cuore, in vista dell’Unico Pastore, il Cristo, che avrebbe guidato il popolo con assoluta fedeltà (Ez 34).
Infatti, «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5), Egli trovò il suo popolo «Come un gregge senza pastore» e ne provò una profonda pena (Mt 9, 36).
Questa comunità, dice il libro dell’Esodo, è stata chiamata ad essere popolo di Dio, perché “preso” da Dio fra tanti popoli (cfr. Es 6,7), perché si faccia «Un solo gregge, un solo pastore» (Gv 10,16). Nel Vangelo di Giovanni, Gesù chiama a sé queste pecore mediante la predicazione dei messaggeri che egli ha inviati. Esse credono in Lui, sicché egli può dire che deve radunare, o guidare, anche queste. In tal modo i radunati formano la chiesa universale (cfr. Ef 2,11-22; 4,2-6).
Come abbiamo osservato in altri casi, anche nel nostro brano ritorna il verbo prendere (laqah) con il suo significato di eleggere, chiamare. Un modo frequente per indicare il chiamato nella Sacra Scrittura, sia nella vocazione collettiva che in quella individuale. Di ogni chiamato, singolo o collettivo, possiamo dire che è un eletto, un afferrato da Dio (cfr. Ger 20,7).
Oltre al verbo prendere, nel senso vocazionale del termine, la Sacra Scrittura conosce anche l’espressione “prendere per mano” (hazaq bejad).
Questi verbi dicono ed esprimono che c’è un progetto di Dio su Giosuè. Progetto che non gli viene svelato direttamente da Dio, ma indirettamente tramite Mosè (cfr. Dt 31,14).
Chiamato a succedere a Mosè, Giosuè riceve l’autorità per mezzo dell’imposizione delle mani. Grazie a questo rito, egli è riempito dello “spirito di sapienza” (Dt 34,9; cfr. Is 11,2) e gli viene conferita la capacità di esercitare la funzione di capo del popolo di Dio, con relativi poteri (Nm 27,23).
Nella cultura ebraica, il nome esprime la missione e le qualità della persona che lo porta. Nella Bibbia il nome con cui è indicato lo Spirito Santo significa “Soffio di Dio”, “Respiro vitale”, “Vento invisibile, impetuoso e potente”. Ma anche “Conoscenza, Ricchezza, Forza creatrice, Sorgente di nuova vita”.
Questi ed altri attributi sono usati per indicare la presenza misteriosa, ma ben definita, di questo Personaggio presente nel Popolo d’Israele.
Perché lo spirito di sapienza? Nella visione descritta da Ezechiele, Dio dice al popolo prostrato dall’esilio babilonese: «Ossa inaridite, udite la parola del Signore ecco: io faccio entrare in voi lo Spirito e vivrete» (Ez 37, 4-5).
In questa teofania, vi è un invito a riconoscere il Dio della vita, della speranza; un Dio che entra nell'animo di ogni uomo e donna vincendo ogni titubanza e ogni esperienza di male, di debolezza e di rassegnazione.
La presenza e l’azione dello Spirito si fanno più visibili nella vita e nella missione dei Capi che, in nome di Dio, guidano il popolo verso il futuro messianico. Ogni sapienza, ogni spirito di sapienza ci riporta alla parola di Dio che è la vera sapienza ed è l'unica capace di liberarci e di guarirci.
Infatti, Giosuè trovava nello studio della Torà le indicazioni per poter entrare nella terra promessa. Anche ciascuno di noi, andando, stando e fermandosi «con le parole del Signore» (Dt 6,7; cfr. Sal 1,1), saprà ascoltare il Signore che continuamente chiama, senza smarrire la strada che porta alla vita. Perché la Parola di Dio è quella che dà forma all’uomo, che lo plasma secondo il progetto originario di Dio. È necessario che la vita dell’uomo sia organizzata interiormente, non secondo i nostri puri desideri o capricci, ma secondo la Parola di Dio.
È la Parola che dà forma, che decide il progetto di vita e che orienta verso un traguardo autentico la vita dell’uomo. Ma poi, insieme con la Parola, lo Spirito. E lo Spirito vuole dire la forza vitale di Dio, quella forza che davvero vince la morte e mette una energia di vita e di speranza.
Nel brano, per la prima volta, compare sui chiamati l’imposizione delle mani (vv. 18b-19). È Mosè stesso che trasmette l’autorità di “capo e giudice” (v. 20a) e a lui tutto il popolo gli deve obbedienza (v. 20b).
L'imposizione delle mani è gesto biblico importante. È un segno di concreta benedizione (cfr. Gen 48,14-15).
Assieme alla parola, la mano è strumento espressivo di linguaggio: manifesta la potenza e lo Spirito del Signore. Le mani di Dio sono creatrici e salvano. Guidano e accompagnano con amore e premura.
È pure segno di consacrazione ad indicare che lo Spirito di Dio si riserva chi ha scelto, ne prende possesso e gli conferisce autorità e capacità in vista di una missione.
Quindi, imporre le mani su qualcuno, come su Giosuè, è molto più di una semplice benedizione: equivale a conferire l'invio in missione. Sarà l'ultimo gesto del Risorto che ascende al cielo. Chi impone le mani rende l'altro partecipe di ciò che egli è.
Ancora è simbolo di identificazione: ad esempio stabilisce un rapporto tra chi impone le mani e la vittima sacrificale. Questa esprime i sentimenti stessi dell'offerente: adorazione e azione di grazie, comunione, domanda di perdono, espiazione.
Da quel momento, Giosuè ebbe il potere di dare gli stessi ordini impartiti da Mosè e di chiedere al sacerdote di consultare la volontà divina attraverso un oracolo. Egli viene riconosciuto da tutti “pastore” (ro ‘eh), capo carismatico e militare della comunità israelitica.
Questi risponde a Dio con la fede e l’obbedienza, decidendo di servire il Dio dei patriarchi e non gli idoli dei popoli vicini. «Servire», in senso biblico, comporta: fedeltà nella fede, servizio cultuale e risposta positiva alle esigenze dei comandamenti.
Ciò che accompagna il chiamato è l’assicurazione divina: «Io sarò con te, non temere» (Gs 1,9), sono parole piene di conforto, ma soprattutto, per il chiamato è certezza che Dio è fedele alle sue promesse (cfr. Gen 12,7; 15,18; 17,8) e queste giunsero a compimento (cfr. Gs 21,45).
Anche in Gesù troviamo la realizzazione delle promesse, anzi sono il nuovo “sì” (2Cor 1,20). Gesù è l’espressione del “sì” di Dio alle promesse fatte al suo popolo e all’umanità (cfr. Gal 3,16). Inoltre, con la sua libera obbedienza e sottomissione fatta al Padre, diede compimento al disegno divino salvifico nella storia: «Imparò l’obbedienza dalle cose che patì e reso perfetto divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5, 8-9).
L’obbedienza di Cristo è l’aspetto della Passione messo maggiormente in evidenza nella catechesi apostolica. «Cristo si è fatto obbediente fino alla morte, e alla morte di croce» (Fil 2, 8); «Per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5, 19); L’obbedienza appare come la chiave di lettura dell’intera storia della Passione, quello da cui questa prende senso e valore.
La Passione fu la prova e la misura della sua obbedienza.
Ma perché è così importante obbedire a Dio? Perché Dio ci tiene tanto a essere obbedito? Non certo per il gusto di comandare e di avere dei sudditi! È importante perché obbedendo noi facciamo la volontà di Dio, vogliamo le stesse cose che vuole Dio e così realizziamo la nostra vocazione originaria che è di essere “a sua immagine e somiglianza”. Siamo nella verità, nella luce e di conseguenza nella pace, come il corpo che ha raggiunto il suo punto di quiete.
Dante Alighieri ha racchiuso tutto ciò in un verso considerato da molti il più bello di tutta la Divina Commedia: “e ’n la sua volontate è nostra pace” (Paradiso, 3,85).
Nella vocazione di Giosuè e in ogni vocazione risuonano sempre queste parole: «Insegnami a compiere il tuo volere» (Sal 142, 10).

interrogarsi
1. Quali “i verbi della nostra vita” che ci mettono in relazione con Dio e con il suo disegno di salvezza?
2. Come faccio agire in me lo Spirito del Signore per il bene dell’altro?
3. Nella mia debolezza, nella mia paura, nella mia inconsistenza, nella mia poca fede chiedo aiuto allo Spirito del Signore e prego così: “Attirami dietro a te, Signore!”.
4. Anche nella mia vocazione risuonano le parole del Salmista: «Insegnami a compiere il tuo volere»?

pregare
Padre nostro…

Signore Dio, ti ringrazio per la tua Parola che mi ha fatto vedere meglio il tuo volere. Fa’ che il tuo Spirito illumini le mie azioni e mi comunichi la forza per eseguire quello che la Tua Parola ha suggerito al mio cuore.

agire
Come Giosuè trovava nello studio della torà le indicazioni per poter entrare nella terra promessa, anche noi fermiamoci «con le parole del Signore», per capire il volere del Padre e non smarrire la strada che porta alla vita e condurre altri a Lui.

RUTH

Invocare
Padre misericordioso, manda anche me, in questo tempo santo della preghiera e dell’ascolto della tua Parola, il tuo angelo santo, perché possa ricevere l’annuncio della salvezza e, aprendo il cuore, possa offrire il mio sì all’Amore. Manda su di me, ti prego, il tuo Spirito santo, quale ombra che mi avvolge, quale potenza che mi colma. Fin da adesso, o Padre, io non voglio dirti altro che il mio “Sì!”; dirti: “Eccomi, sono qui per te. Fa’ di me ciò che ti piace”. Amen.

Leggere (Rt 2,1-3.8-11)
2, 1 Noemi aveva un parente del marito, uomo potente e ricco della famiglia di Elimèlech, che si chiamava Booz. 2 Rut, la Moabita, disse a Noemi: “Lasciami andare per la campagna a spigolare dietro a qualcuno agli occhi del quale avrò trovato grazia”. Le rispose: “Và, figlia mia”. 3 Rut andò e si mise a spigolare nella campagna dietro ai mietitori; per caso si trovò nella parte della campagna appartenente a Booz, che era della famiglia di Elimèlech. 8 Allora Booz disse a Rut: “Ascolta, figlia mia, non andare a spigolare in un altro campo; non allontanarti di qui, ma rimani con le mie giovani; 9 tieni d’occhio il campo dove si miete e cammina dietro a loro. Non ho forse ordinato ai miei giovani di non molestarti? Quando avrai sete, và a bere dagli orci ciò che i giovani avranno attinto”. 10 Allora Rut si prostrò con la faccia a terra e gli disse: “Per qual motivo ho trovato grazia ai tuoi occhi, così che tu ti interessi di me che sono una straniera? ”. 11 Booz le rispose: “Mi è stato riferito quanto hai fatto per tua suocera dopo la morte di tuo marito e come hai abbandonato tuo padre, tua madre e la tua patria per venire presso un popolo, che prima non conoscevi.


«Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel Regno di Dio» (Lc 13,29).
Con le parole dell’Evangelista Luca, cogliamo il personaggio femminile di Ruth, il cui nome è di difficile interpretazione. Alcuni vi scoprono la radice ebraica di “vedere” e altri quella di “riempire”, mentre c’è chi pensa al significato di “compagna” (re’ut). Altri ancora, e forse adatta anche al nostro brano, hanno assunto l'ipotesi che Ruth derivi da “rwh” che significa “essere irrigato a sazietà” (“riempire” d’acqua) e, per metafora, “essere colmo di beni”, uno dei termini usati dai profeti per indicare la benedizione del Signore nei confronti del suo popolo.
La nostra lectio più che sulla scena, vuole convergere sul nome della donna e in particolare su quest’ultimo significato dato.
Questo perché Dio parla in una maniera adatta all'uomo. Come Gesù, pienezza della Parola di Dio, è veramente Colui che è adatto ad incontrare l'uomo per raggiungere in profondità la totalità del suo cuore.
Infatti, la Parola di Dio non è destinata soltanto all'intelligenza dell'uomo, ma a tutta la persona, proprio perché l'uomo non è solo né primariamente in grado di capire quello che Dio gli vuol dire, ma è capace di ricevere quello che Dio gli vuol dare attraverso la sua Parola: vita, amore, perdono, sapienza e l'uomo perciò riceve ogni comunicazione di Dio, ogni sua «parola» con tutto se stesso, col cuore prima che con l'intelligenza. Perciò Gesù ebbe a dire che il Padre rivela i suoi misteri ai piccoli e ai poveri e li tiene nascosti ai sapienti (Cfr. Mt 11,25): i piccoli si lasciano raggiungere nel cuore, mentre i dotti si lasciano raggiungere solo nell'intelligenza, non sono disponibili a lasciarsi cambiare la vita: perciò la Parola di Dio non riesce a diventare vita per loro, rimane estranea alla loro esistenza.
C’è nella vita di Ruth e di ogni uomo e donna una sete che solo Dio può colmare, una sete che ci conduce certamente a Lui.
L'uomo è veramente un vuoto, un vuoto che attende di essere riempito, irrigato a sazietà, è terra assetata e arida (Sal 63, 2) che attende l'acqua per fiorire, è ossa aride (Cfr. Ez 37) che attendono un soffio vitale per poter rinascere, è tristezza che attende motivi di gioia per cambiare la veste da lutto in abito di danza (Sal 29,12). Donde può mai venire la vita a quest'uomo votato alla morte? (Rm 7,24; cfr. Gv 5,24; Sal 78,11; Ez 31,14).
Forse ci è difficile capirlo, non saremo i primi. Anche l’apostolo Pietro non riusciva a capire con la sua intelligenza perché non usava il cuore, non si faceva irrigare fino in fondo, a sazietà. Gesù infatti gli rispose: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo» (Gv 13,7).
Quando siamo davanti a Lui, davanti alla Parola lasciamoci amare, poi cerchiamo di comprendere: prima obbedire, poi capire. Prima l'incontro cuore a cuore, poi arriva anche l'intelligenza.
Ruth è la donna capace di farsi irrigare fino in fondo prima di fare un’ulteriore scelta di vita, prima di scoprire la grandezza del dono.
C’è una condizione nella vita di ciascuno che, grazie a Ruth, possiamo scoprire insieme al Salmista: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente… Le lacrime sono il mio pane… Mentre mi dicono “Dove è il tuo Dio”. Questo io ricordo e il mio cuore si strugge… In me si abbatte l’anima mia; perciò di te mi ricordo» (Sal 42, 2-5.7).
Sia nel nostro brano (il nome di Ruth e lei che va a spigolare), sia nel Salmo troviamo la sete e la fame: una condizione che ci conduce in maniera continua alla ricerca di Dio perché esiliati, cacciati fuori dal luogo di origine, del proprio benessere, dalla propria patria, etc.
In tutti c’è un ricordare e un ritornare a spigolare per rivivere e ascoltare meglio la voce che chiama perché «Chi ha sete venga a me» (Gv 7,37) perché «Chi crede in me non avrà più sete» (Gv 6,35).
Ruth è simbolo di quanti si accosteranno alla voce del Signore, di quanti realizzeranno le parole del profeta Amos: «Ecco verranno giorni – dice il Signore Dio – in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore» (Am 8,11).
Con una profezia e con una benedizione il profeta annuncia che prima o poi se non altro al momento della morte, non ci sazierà più niente fuori di Dio. Non ci sazierà più il benessere, né la salute, né la fama, né il potere. Anzi avremo sempre più insoddisfazione fino al momento in cui cominceremo ad avere sete e fame della Parola di Dio.
Ruth è la donna che prende coscienza di questo e si fa avanti, va a spigolare perché la sua vita si realizzi in un incontro terreno in preparazione dell’incontro finale con l’Autore della vita, che, a sua volta, sarà Lui a donare a Ruth e a tutti la sua spiga.
Una prima spiga la troviamo nell’albero genealogico del Messia perché questa donna scelta da Dio entri nella storia della salvezza e quindi deve, in qualche maniera, far parte del popolo eletto. Questo privilegio le viene riconosciuto dallo stesso Booz, suo marito: «Tu hai abbandonato tuo padre, tua madre e la tua patria per venire presso un popolo, che prima non conoscevi» (v. 11).
Queste parole, composte in maniera diversa, le ritroviamo nel Vangelo sulla bocca di Gesù, mentre veniva interrogato su come possedere la vita eterna: «Amen vi dico, non c’è nessuno che ha lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi, a causa di me e a causa del vangelo» (Mc 10,29).
Queste sono le parole che ci rendono poveri e piccoli, facendoci scoprire il tesoro inestimabile per il quale si lascia tutto: è una chance che Gesù dona perché tutti possiamo passare, grazie alla nostra povertà, per le porte della vita. Il Regno è amare Lui, che si è fatto fratello per poter essere incontrato e baciato da noi (Ct 8,1). Si è fatto ultimo di tutti, perché amando il più povero, amiamo Lui; e amando Lui amiamo tutti.
In queste persone che vanno dietro a Gesù vi è un rapporto libero da ogni idolatria perché tutto ritorna secondo il disegno di Dio, vivendo il tutto come un dono dall’Alto e da condividere con tutti (cfr. Rt 2, 8-9).
Farsi discepoli significa scoprire nello sguardo di Dio l’unico bene. Discepolo è colui che si lascia conquistare dal Signore, come Ruth, come Paolo, è un lasciar perdere tutto e correre per conquistarlo (Fil 3,8.12). È l’adesione personale a Colui che è povero e che porta la croce e ciò costituisce il momento essenziale della sequela; ogni altro motivo sarebbe insufficiente perché nella parola dell’annuncio evangelico che tutti trovano Gesù e motivano la loro adesione.
La ricompensa avviene già quaggiù sulla terra, perché nella comunione fraterna della comunità cristiana i discepoli trovano ampiamente i beni lasciati (Mc 10,30).
Sia nel Vangelo che nella vicenda di Ruth vi è un centro che fa parte della fede cristiana: lasciare tutto per Cristo Gesù, lasciarsi sedurre dal Dio che ci è apparso in Gesù.
Soltanto chi ha questa «Superna conoscenza di Cristo Gesù» (Fil 3,8), è presso Dio, ha scoperto – spigolando – la perla preziosa (Mt 13,46), abbandona tutto con gioia lasciandosi irrigare dentro e fuori di sé, perché ha la pienezza della vita del regno che è riservato ai poveri.

Interrogarsi
1. Rileggendo la vicenda di Ruth, prova a richiamare e a vedere quanta forza essa sprigiona ancora nella tua vita: prova a chiederti se il tuo cammino si è fatto tiepido e pigro o se mantiene la freschezza originaria.
2. Ci facciamo irrigare a sazietà dalla Parola di Dio per poi viverla con tutti?
3. Quali esperienze e atteggiamenti interiori favoriscono o impediscono la tua spigolatura così da tradurre in preghiera in tuo “sì” al Signore?

Pregare
Spirito d'amore, Tu che sei amore in tutta la tua persona, l'Amore unico e ideale, vieni a trasformare in amore tutta la nostra vita. Donaci di amare alla maniera di Dio, il quale non mette limiti all'apertura del suo cuore, tu che ne sei il dono integrale.
Donaci di amare ad esempio di Cristo, che ha testimo¬niato all'umanità una bontà mirabile offrendo per essa il sacrificio della vita.
Donaci di amare con tutta la spontaneità del nostro essere, ma insieme con tutta l'energia spirituale che ci viene da te.
Donaci di amare in maniera sincera e disinteressata, distaccandoci completamente dalle nostre ambizioni personali. Donaci di amare prodigandoci volentieri e senza attendere ricompensa, dimenticando ciò che diamo e ciò che sopportiamo.
Donaci di amare anche nelle delusioni e negli sgarbi, amare fino alla fine anche senza ricevere alcun contraccambio.
Donaci di amare con pazienza instancabile, senza irritarci dei difetti altrui e dei torti ricevuti.
Donaci di amare e di crescere sempre più nell'amore, facendoci scoprire progressivamente tutto ciò che esige quell'amore perfetto che si trova solo in te.
Donaci di trovare la nostra gioia nell'amore e di cercare la nostra vera felicità nel far contenti gli altri.

Agire
Impegnarsi in una vita sempre più piena nella ricerca del Bene assoluto nella continua donazione di sé.