sabato 21 maggio 2011

AMOS


Invocare
O Spirito Santo, anima dell'anima mia, in te solo posso esclamare: Abbà, Padre.
Sei tu, o Spirito di Dio, che mi rendi capace di chiedere e mi suggerisci che cosa chiedere.
O Spirito d'amore, suscita in me il desiderio di camminare con Dio: solo tu lo puoi suscitare.
O Spirito di santità, tu scruti le profondità dell'anima nella quale abiti, e non sopporti in lei
neppure le minime imperfezioni: bruciale in me, tutte, con il fuoco del tuo amore.
O Spirito dolce e soave, orienta sempre più la mia volontà verso la tua, perchè la possa conoscere chiaramente, amare ardentemente e compiere efficacemente. Amen (San Bernardo).

Leggere (Am 1,1.7,14-15)
1,1 Parole di Amos, che era pecoraio di Tekòa, il quale ebbe visioni riguardo a Israele, al tempo di Ozia re della Giudea, e al tempo di Geroboàmo figlio di Ioas, re di Israele, due anni prima del terremoto.
7,14 “Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori; 15 Il Signore mi prese di dietro al bestiame e il Signore mi disse: Và, profetizza al mio popolo Israele.
Amos è uno di quei “profeti” e “veggenti”, dei quali si parla in 2Re 17,13 per tornare, con cuore sincero, a cercare il Signore Dio: «Convertitevi dalle vostre vie malvage e osservate i miei comandi e i miei decreti secondo ogni legge, che io ho imposta ai vostri padri e che ho fatto dire a voi per mezzo dei miei servi, i profeti».
Come Osea, di Amos sono state conservate e tramandate le “parole” (Am 1,1; cfr. Os 1,1), contenute in distinte raccolte, che dagli stessi prendono il nome.
Il motivo centrale e unificante di tutto il libro è quello della giustizia; e per questo il suo messaggio è di straordinaria attualità. Amos critica l’ingiustizia che si cela dietro le apparenze di una rigorosa legalità, biasima la perversione di una religione che si compiace di sontuose pratiche cultuali, mentre dimentica il dovere di provvedere ai poveri e di agire secondo equità.
Amos operò durante il regno di Ozia in Giuda (767-739 a.C.) e di Geroboamo II in Israele (782-753 a.C.). Predica nel regno del nord, Regno di Israele, con capitale Samaria, pur essendo "residente" nel regno del sud, Regno di Giuda, poco distante da Betlemme, a Tekòa (18 Km a sud di Gerusalemme), dove faceva di mestiere il pastore (Am 1, 1.7, 14-15). Il regno di Israele sarebbe caduto per opera dell'Assiria (722 a.C.) solo 30 anni dopo la predicazione di Amos.
Il Testo della nostra riflessione non è proprio un racconto vocazionale, ma una autobiografia di Amos. Egli ci parla del sua esperienza di Dio senza staccare la fede dalla vita. Egli non fa altro che rievocare l’esperienza spirituale che ha inciso profondamente nella sua vita (Cfr. 7,1), e che lo ha trasformato da «pecoraio» (1,1) in «profeta» (7,15).
In questa sua esperienza, all’improvviso, il Signore “tuonò” (Cfr. Sal 29) indicandogli la sua vocazione e quel tuono gli era parso una voce simile a quella di un leone. «Il Signore ruggisce da Sion e da Gerusalemme fa udire la sua voce; sono desolate le steppe dei pastori, è inaridita la cima del Carmelo» (Am 1,2; 3,8. Cfr. anche Is 31,4; Ger 25,30; Gl 4,16). Questo ruggito diviene per lui il simbolo tempestoso che irrompe sulla scena della società del tempo.
Cosa significa? In Am 1,1 viene indicato il sostantivo maschile «tempo». Ciò sta ad indicare un momento basilare, ben preciso, nella vita del profeta ma anche di tutto il popolo, in cui Dio irrompe silenziosamente per dare senso alla nostra esistenza.
In questa irruzione si vive l’esperienza della chiamata divina, che dà l’avvio al ministero. Essa si realizza in una triplice fase: un forte incontro con Dio - dialogo; la missione e la consegna delle parole.
Amos vive di questa esperienza (Cfr. Am 7,15; 3,8; Ger 20,7; Is 6,1-5; Ez 1,28) e si fa “icona” per ognuno di noi in quanto, in qualsiasi circostanza della nostra vita ognuno è chiamato da Dio ad essere “icona” per l’altro. Infatti, la grandezza di ogni persona, per la Bibbia, è nell'essere "tu" che Dio istituisce con il suo Tu e alla cui libertà di risposta egli affida il suo amore che non resta sterile, ma è sempre efficace (Cfr. Is 55,10-11).
Amos non era un profeta (nel senso ristretto del termine) né apparteneva ad alcuna comunità profetica. Il Signore rende Amos un nabi’, cioè un profeta. Dio lo strappa dalla sua gente e dalla sua terra per inviarlo nel regno di Israele, cioè fuori della sua terra e ad altra gente (Cfr. Gen 12,1.4-5).
Per Amos (3,7s) nabì è colui che avendo udito la voce di Dio deve profetare, deve “proclamare la parola” (3,1-8) e che proclamandola energicamente mostra di aver sentito la voce divina (3,3-6). In concreto è colui che viene preso, afferrato da Dio e inviato come portavoce al suo popolo (7,15; cfr. 2Sam 7,8; 1Re 19,19ss; Lc 23,26).
Il popolo di Dio aveva perso il ricordo del grande disegno che presiede alla sua storia, per questo Dio chiama Amos dalla sua normale occupazione di pastore e agricoltore per portare una parola (infatti il nome di Amos in ebraico fa “Jahwe ti ha portato”) che i figli di Israele hanno respinto e farli ritornare alla legge del Signore (Cfr. Am 3,1; 4,1; 3,13).
Il Testo usa per noi tre proposizioni nominali atemporali, dichiarando quello che Amos era e quello che non era prima della chiamata divina (7,14) e rivelandosi come un profeta scomodo, tanto che il sacerdote di Betel, vede nella sua predicazione un pericolo per il re e per la casa di Israele e lo denunzia a Geroboamo (Cfr. 7,10-11).
Anche in Am 7,14, come in altri racconti vocazionali, la vocazione è attribuita a Dio ed è espressa dai verbi “prendere” e “inviare”.
In questi due verbi vi è anzitutto la lieta accoglienza divina (Cfr. Dt 33,3; Ger 9,20). Questo significa che all’origine dell’elezione e della vocazione di Amos, come in altre vocazioni individuali e collettive c’è un atto libero e sovrano di Dio (Cfr. Sof 3,7), che lo ha “preso” e lo ha “mandato” a profetizzare. Inoltre, abbiamo una investitura con un compito concreto e generalmente ben delimitato: il verbo “inviare” (eb. Shaliakh) sta ad indicare una persona autorizzata ad agire a nome di un’altra.
In questi verbi abbiamo un rimando ad un’altra “accoglienza” ed “invio” che riscontriamo nel Nuovo Testamento: «Chi accoglie voi, accoglie me» (Mt 10,40). Il discepolo rappresenta Gesù e il suo messaggio. Ciò significa: chi è chiamato a continuare la missione di Gesù e viene accolto, accoglie Gesù e Dio stesso.
Ma Cristo si incontra solo nei suoi messaggeri? Egli si presenta a tutti nelle più misere e bisognose vesti: «Chi accoglie in nome mio uno di questi piccoli, accoglie me» (Mc 9,37).
Nell’immagine del piccolo è racchiusa l’accoglienza, l’amore e il rispetto assoluto perché è il bisogno di ognuno per essere felice (Cfr. Am 7,2-3.5-6). A sua volta, Dio si fa accoglienza donata e ricevuta, amore reciproco. Gesù si identifica col piccolo perché è l’ultimo e servo di tutti (Mc 9,35; Mt 20,26; 23,11; Mc 10,44; 1Cor 9,19).
Dio manda il suo profeta - Amos - in mezzo al popolo, manda ciascuno di noi per essere ultimo e servo di tutti, per accoglierLo nella realtà della vita quotidiana. Accogliere Lui è entrare nella propria verità; è realizzarsi e vivere.
In questo “mandare”, essere “presi” vi è racchiuso un mandato reciproco che invita a farsi “piccolo”. Essere piccoli, significa essere discepoli perennemente smentiti nella propria fede, smentiti non solo dal mondo, ma dalla propria comunità, anche da quelli che pretendono di essere nostri maestri (Cfr. Mc 3,20-21.31-35).
È una ricerca di Dio che si fa solidarietà, voce di quanti soffrono e sono perseguitati e umiliati.
Essere profeti per Amos è credere in Dio e credere ancora nell’uomo. Per questo lo vediamo scuotere le coscienze addormentate e intiepidite dei contemporanei. Infatti, “È inutile rimanere sempre davanti all’immagine del Dio prediletto ed agitare lampade rituali; è possibile invece, ed è più giusto, agitare sempre davanti al nome del proprio Dio la lampada ardente del proprio amore” (Tukaram).
La sua testimonianza per ciascuno di noi è monito non solo per ricercare Dio, ma impegno effettivo di trasformare il mondo per renderlo più umano e più vivibile, cercando di essere solidali con tutti. Questo è possibile perché il fiume della storia non va verso il baratro, ma verso un estuario di pace (9,11-15).

interrogarsi
1. Quale irruzione di Dio nella tua vita?
2. La mia fede ha incisività nella vita quotidiana? E quale incisività ha la mia vita, con i suoi problemi e i suoi successi, nel mio cammino di fede?
3. Ci lasciamo interpellare dalla Voce di Dio, per portare la Sua parola ai nostri contemporanei?
4. Credere in Dio significa anche credere nell’uomo: so dare fiducia agli altri? Riesco a cogliere anche i loro aspetti positivi?
5. Riesco a vivere la vita come un tutt’uno, senza fratture tra fede e vita…. Quali difficoltà incontro?

Pregare
Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: 
egli annunzia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli.

La sua salvezza è vicina a chi lo teme 
e la sua gloria abiterà la nostra terra.

Misericordia e verità s'incontreranno, 
giustizia e pace si baceranno.
La verità germoglierà dalla terra 
e la giustizia si affaccerà dal cielo.

Quando il Signore elargirà il suo bene, 
la nostra terra darà il suo frutto.
Davanti a lui camminerà la giustizia 
e sulla via dei suoi passi la salvezza (dal Sal 84).

Agire
In un'epoca come la nostra, caratterizzata da profonde tensioni sociali, il richiamo del profeta Amos "Preparati o Israele a incontrare il tuo Dio" risulta non solo attuale ma anche opportuno, per vivere ogni giorno questa Parola di salvezza all’insegna della solidarietà.