sabato 21 maggio 2011

GIOSUÈ

invocare
Spirito di Dio, iniziativa dell’amore, stupore del vivere, silenzio indicibile in cui la vita e l’amore si confondono. Tu vieni a turbarci, vento dello Spirito. Tu sei l’altro che è in noi. Tu sei il soffio che anima e sempre scompare. Tu sei il fuoco che brucia per illuminare. Attraverso i secoli e le moltitudini tu corri come un sorriso per far impallidire le pretese degli uomini. Poiché tu sei l’invisibile testimone del domani, di tutti i domani. Tu sei povero come l’Amore, per questo ami radunare per creare. Oh, brezza e tempesta di Dio! (David Maria Turoldo).

leggere (Nm 27,18-20)
27, 18 Il Signore disse a Mosè: “Prenditi Giosuè, figlio di Nun, uomo in cui è lo spirito; porrai la mano su di lui, 19 lo farai comparire davanti al sacerdote Eleazaro e davanti a tutta la comunità, gli darai i tuoi ordini in loro presenza 20 e lo farai partecipe della tua autorità, perché tutta la comunità degli Israeliti gli obbedisca.


Giosuè, figlio di Nun, appartenente alla tribù di Efraim, il secondo figlio di Giuseppe, visse nel XII secolo a.C. e fin da adolescente fu messo al servizio di Mosè (cfr. Nm 11,28).
Originariamente si chiamava Osea, ma Mosè, del quale era uno dei più fedeli discepoli e al quale succedette nella guida del popolo ebraico, trasformò il suo nome in Giosuè, che significa “Jahvé salva” (cfr. Nm 13,6.16).
Nel leggere in queste poche righe della lectio la vocazione di Giosuè, a differenza delle altre vocazioni bibliche, manca qui un intervento diretto da parte di Dio. Infatti, si attua tramite un mediatore: Mosé.
Anche nel NT, nel Vangelo di Giovanni, leggiamo qualcosa di simile: «Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa, c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli chiesero: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù» (Gv 12,20-22).
L’incontro con il Signore Gesù non può essere un’improvvisazione individuale, un “affare privato”: può essere celebrato e vissuto soltanto grazie alla mediazione della comunità (Andrea e Filippo) che mette a contatto con il Signore.
Anche Mosè a suo tempo chiese a Dio che vi fosse un capo nel popolo di Israele, perché la comunità «Non sia un gregge senza pastore» (Nm 27,17).
Negli eventi biblici, il Signore tocca il cuore di qualcuno perché fosse pastore e guida del suo gregge in suo nome e secondo il suo cuore, in vista dell’Unico Pastore, il Cristo, che avrebbe guidato il popolo con assoluta fedeltà (Ez 34).
Infatti, «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5), Egli trovò il suo popolo «Come un gregge senza pastore» e ne provò una profonda pena (Mt 9, 36).
Questa comunità, dice il libro dell’Esodo, è stata chiamata ad essere popolo di Dio, perché “preso” da Dio fra tanti popoli (cfr. Es 6,7), perché si faccia «Un solo gregge, un solo pastore» (Gv 10,16). Nel Vangelo di Giovanni, Gesù chiama a sé queste pecore mediante la predicazione dei messaggeri che egli ha inviati. Esse credono in Lui, sicché egli può dire che deve radunare, o guidare, anche queste. In tal modo i radunati formano la chiesa universale (cfr. Ef 2,11-22; 4,2-6).
Come abbiamo osservato in altri casi, anche nel nostro brano ritorna il verbo prendere (laqah) con il suo significato di eleggere, chiamare. Un modo frequente per indicare il chiamato nella Sacra Scrittura, sia nella vocazione collettiva che in quella individuale. Di ogni chiamato, singolo o collettivo, possiamo dire che è un eletto, un afferrato da Dio (cfr. Ger 20,7).
Oltre al verbo prendere, nel senso vocazionale del termine, la Sacra Scrittura conosce anche l’espressione “prendere per mano” (hazaq bejad).
Questi verbi dicono ed esprimono che c’è un progetto di Dio su Giosuè. Progetto che non gli viene svelato direttamente da Dio, ma indirettamente tramite Mosè (cfr. Dt 31,14).
Chiamato a succedere a Mosè, Giosuè riceve l’autorità per mezzo dell’imposizione delle mani. Grazie a questo rito, egli è riempito dello “spirito di sapienza” (Dt 34,9; cfr. Is 11,2) e gli viene conferita la capacità di esercitare la funzione di capo del popolo di Dio, con relativi poteri (Nm 27,23).
Nella cultura ebraica, il nome esprime la missione e le qualità della persona che lo porta. Nella Bibbia il nome con cui è indicato lo Spirito Santo significa “Soffio di Dio”, “Respiro vitale”, “Vento invisibile, impetuoso e potente”. Ma anche “Conoscenza, Ricchezza, Forza creatrice, Sorgente di nuova vita”.
Questi ed altri attributi sono usati per indicare la presenza misteriosa, ma ben definita, di questo Personaggio presente nel Popolo d’Israele.
Perché lo spirito di sapienza? Nella visione descritta da Ezechiele, Dio dice al popolo prostrato dall’esilio babilonese: «Ossa inaridite, udite la parola del Signore ecco: io faccio entrare in voi lo Spirito e vivrete» (Ez 37, 4-5).
In questa teofania, vi è un invito a riconoscere il Dio della vita, della speranza; un Dio che entra nell'animo di ogni uomo e donna vincendo ogni titubanza e ogni esperienza di male, di debolezza e di rassegnazione.
La presenza e l’azione dello Spirito si fanno più visibili nella vita e nella missione dei Capi che, in nome di Dio, guidano il popolo verso il futuro messianico. Ogni sapienza, ogni spirito di sapienza ci riporta alla parola di Dio che è la vera sapienza ed è l'unica capace di liberarci e di guarirci.
Infatti, Giosuè trovava nello studio della Torà le indicazioni per poter entrare nella terra promessa. Anche ciascuno di noi, andando, stando e fermandosi «con le parole del Signore» (Dt 6,7; cfr. Sal 1,1), saprà ascoltare il Signore che continuamente chiama, senza smarrire la strada che porta alla vita. Perché la Parola di Dio è quella che dà forma all’uomo, che lo plasma secondo il progetto originario di Dio. È necessario che la vita dell’uomo sia organizzata interiormente, non secondo i nostri puri desideri o capricci, ma secondo la Parola di Dio.
È la Parola che dà forma, che decide il progetto di vita e che orienta verso un traguardo autentico la vita dell’uomo. Ma poi, insieme con la Parola, lo Spirito. E lo Spirito vuole dire la forza vitale di Dio, quella forza che davvero vince la morte e mette una energia di vita e di speranza.
Nel brano, per la prima volta, compare sui chiamati l’imposizione delle mani (vv. 18b-19). È Mosè stesso che trasmette l’autorità di “capo e giudice” (v. 20a) e a lui tutto il popolo gli deve obbedienza (v. 20b).
L'imposizione delle mani è gesto biblico importante. È un segno di concreta benedizione (cfr. Gen 48,14-15).
Assieme alla parola, la mano è strumento espressivo di linguaggio: manifesta la potenza e lo Spirito del Signore. Le mani di Dio sono creatrici e salvano. Guidano e accompagnano con amore e premura.
È pure segno di consacrazione ad indicare che lo Spirito di Dio si riserva chi ha scelto, ne prende possesso e gli conferisce autorità e capacità in vista di una missione.
Quindi, imporre le mani su qualcuno, come su Giosuè, è molto più di una semplice benedizione: equivale a conferire l'invio in missione. Sarà l'ultimo gesto del Risorto che ascende al cielo. Chi impone le mani rende l'altro partecipe di ciò che egli è.
Ancora è simbolo di identificazione: ad esempio stabilisce un rapporto tra chi impone le mani e la vittima sacrificale. Questa esprime i sentimenti stessi dell'offerente: adorazione e azione di grazie, comunione, domanda di perdono, espiazione.
Da quel momento, Giosuè ebbe il potere di dare gli stessi ordini impartiti da Mosè e di chiedere al sacerdote di consultare la volontà divina attraverso un oracolo. Egli viene riconosciuto da tutti “pastore” (ro ‘eh), capo carismatico e militare della comunità israelitica.
Questi risponde a Dio con la fede e l’obbedienza, decidendo di servire il Dio dei patriarchi e non gli idoli dei popoli vicini. «Servire», in senso biblico, comporta: fedeltà nella fede, servizio cultuale e risposta positiva alle esigenze dei comandamenti.
Ciò che accompagna il chiamato è l’assicurazione divina: «Io sarò con te, non temere» (Gs 1,9), sono parole piene di conforto, ma soprattutto, per il chiamato è certezza che Dio è fedele alle sue promesse (cfr. Gen 12,7; 15,18; 17,8) e queste giunsero a compimento (cfr. Gs 21,45).
Anche in Gesù troviamo la realizzazione delle promesse, anzi sono il nuovo “sì” (2Cor 1,20). Gesù è l’espressione del “sì” di Dio alle promesse fatte al suo popolo e all’umanità (cfr. Gal 3,16). Inoltre, con la sua libera obbedienza e sottomissione fatta al Padre, diede compimento al disegno divino salvifico nella storia: «Imparò l’obbedienza dalle cose che patì e reso perfetto divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5, 8-9).
L’obbedienza di Cristo è l’aspetto della Passione messo maggiormente in evidenza nella catechesi apostolica. «Cristo si è fatto obbediente fino alla morte, e alla morte di croce» (Fil 2, 8); «Per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5, 19); L’obbedienza appare come la chiave di lettura dell’intera storia della Passione, quello da cui questa prende senso e valore.
La Passione fu la prova e la misura della sua obbedienza.
Ma perché è così importante obbedire a Dio? Perché Dio ci tiene tanto a essere obbedito? Non certo per il gusto di comandare e di avere dei sudditi! È importante perché obbedendo noi facciamo la volontà di Dio, vogliamo le stesse cose che vuole Dio e così realizziamo la nostra vocazione originaria che è di essere “a sua immagine e somiglianza”. Siamo nella verità, nella luce e di conseguenza nella pace, come il corpo che ha raggiunto il suo punto di quiete.
Dante Alighieri ha racchiuso tutto ciò in un verso considerato da molti il più bello di tutta la Divina Commedia: “e ’n la sua volontate è nostra pace” (Paradiso, 3,85).
Nella vocazione di Giosuè e in ogni vocazione risuonano sempre queste parole: «Insegnami a compiere il tuo volere» (Sal 142, 10).

interrogarsi
1. Quali “i verbi della nostra vita” che ci mettono in relazione con Dio e con il suo disegno di salvezza?
2. Come faccio agire in me lo Spirito del Signore per il bene dell’altro?
3. Nella mia debolezza, nella mia paura, nella mia inconsistenza, nella mia poca fede chiedo aiuto allo Spirito del Signore e prego così: “Attirami dietro a te, Signore!”.
4. Anche nella mia vocazione risuonano le parole del Salmista: «Insegnami a compiere il tuo volere»?

pregare
Padre nostro…

Signore Dio, ti ringrazio per la tua Parola che mi ha fatto vedere meglio il tuo volere. Fa’ che il tuo Spirito illumini le mie azioni e mi comunichi la forza per eseguire quello che la Tua Parola ha suggerito al mio cuore.

agire
Come Giosuè trovava nello studio della torà le indicazioni per poter entrare nella terra promessa, anche noi fermiamoci «con le parole del Signore», per capire il volere del Padre e non smarrire la strada che porta alla vita e condurre altri a Lui.